Ci è impossibile fare distinzioni di preferenza tra la cordiale freschezza delle sonate per pianoforte giovanili di Beethoven e le marcate volute musicali «mit innigster Empfindung», «con il più intimo sentimento», delle sue späten Klaviersonaten: questo perché consideriamo ciascuna alla stregua di un personale quanto astratto luogo anche della nostra memoria. E questo non essendo né musicisti, né musicologi, ma semplicemente uomini.

Identicamente, volentieri amiamo tornare con il nostro «inward eye», l’occhio interiore (per dirla con Wordsworth), ad altri territori altrettanto immateriali, sovente racchiusi dentro un semplice verso, un’unica parola o un solo nome, per se stessi magari nemmeno particolarmente evocativi – se non per quanto di ciò che siamo e facciamo vi viene ricapitolato e, da quel preciso istante in avanti, conservato.

Un nome come quello che vide le stampe a opera di Samuel Coleridge proprio intorno agli stessi anni delle opere citate in apertura: «In Xanadu did Kubla Khan / A stately pleasure-dome decree: / Where Alph, the sacred river, ran / Through caverns measureless to man / Down to a sunless sea. / So twice five miles of fertile ground / With walls and towers were girdled round»; «A Xanadu volle Kubla Khan / Erigere un immenso palazzo dei desideri: / Dove Alfeo, il sacro fiume, scorre / Per caverne che l’uomo non può misurare / Giù verso un mare senza sole. / Così cinque e cinque miglia di fertile terreno / Con muri e torri venne circondato».

Un nome che non arriverebbe in maniera così piena e distinta alle nostre orecchie e ai nostri occhi – questa volta non solo interiori, anzi… – se lì di mezzo, tra quelle opere e noi, a un certo punto, più precisamente settant’anni fa, non si fosse levato colui che è considerato il padre del cinema moderno, un giovane di venticinque anni tanto brillante quanto sfrontato, di quel genio e di quella tempra che possono talvolta fare da graditi compagni di strada in alcune irripetibili fasi della vita di un uomo.

Orson Welles (questo il nome di quel ragazzo), parecchi anni dopo e ormai invecchiato, si sarebbe scoperto a dire di sé – incastrato in chissà quale tipo di circostanza e stuzzicato da chissà quale sorta di intervistatore – che «[s]ono un ingordo in materia di libri: storia, memorialistica, filosofia, antropologia. Leggo per apprendere e per il piacere di leggere e non per il gusto della letteratura in sé o per cercare idee per i film. Ho amici che leggono come me e anche di più, ma non conosco nessuno che come me rilegge i classici senza mai stancarsi. […] Ma rileggo anche molta letteratura meno seria. […] Riscrivo, così come rileggo, senza mai stancarmi. Ogni mio libro si forma abbozzo dopo abbozzo prima di venire, infine, gettato via. Conservo alcuni dei miei quadri ma non li espongo, così come non pubblico i miei manoscritti. Dipingo ancora. E faccio lunghe passeggiate e progetti impossibili: ecco, sì, una vera mania, se ci si pensa bene: fare dei progetti impossibili».

Nel 1982 – tre anni prima di morire – così avrebbe risposto a chi gli chiedeva di tracciare un bilancio della propria carriera: «Avrei avuto molto più successo se avessi lasciato immediatamente il cinema, se fossi rimasto nel teatro, o se fossi entrato in politica, se avessi fatto lo scrittore o qualsiasi altra cosa. Ho gettato via gran parte della mia vita nello sforzo di cercare denaro e di cavarmela in qualche modo, per poter fare il mio lavoro usando questa scatola di colori estremamente costosa che è un film. E ho sprecato fin troppa energia dietro a cose che non hanno nulla a che vedere con il fare un film. Diciamo che un due per cento del mio tempo l’ho impiegato a fare film, e un novantotto per cento a sbattermi qui e là per poterli fare».

In definitiva un masochista della settima arte, un pazzo di grande talento, “una solitudine circondata di gente” (l’immagine è di Jean Cocteau), un’artista a tutto tondo che al di là dell’occasione fornita da questa ricorrenza non si potrà mai celebrare abbastanza per il suo Citizen Kane (titolo originale di Quarto potere); una pellicola accolta proprio settant’anni fa, giovedì 1 maggio 1941, dalle sale americane che decisero di programmarla a discapito della feroce campagna giornalistica che ne avrebbe voluto al rogo tutte le copie in circolazione; una folle scommessa a conti fatti vinta e persa allo stesso tempo; folgorante opera d’esordio nel mondo del cinema e autentica pietra tombale di un’intera carriera (almeno quanto a rapporto con il sistema degli studios hollywoodiani).

In un suo saggio del 1978, così il critico e regista François Truffaut riassume i termini della sfida lanciata dal giovane Welles con la lavorazione di quest’opera capitale: «[I]nvece di doversi far conoscere e riconoscere, […] si trovava nella situazione opposta, quella cioè di dover sostenere una reputazione già enorme. […] [D]oveva sapere molto bene che avrebbe dovuto produrre non solo un buon film, ma il film, quello che avrebbe riassunto quarant’anni di cinema pur facendo il contrario di tutto ciò che era stato fatto fino ad allora, un film che fosse allo stesso tempo un bilancio e un programma, una dichiarazione di guerra al cinema tradizionale e una dichiarazione d’amore al mezzo cinematografico».

Ciò ricordato, forse nemmeno il loro stesso autore avrebbe però potuto anche solo lontanamente immaginare che quelle inquadrature finali ambientate nell’ormai dimessa reggia privata di Xanadu (Kandalù, nella versione italiana) – chiuse da una panoramica dall’alto a percorrere l’infinita e disordinata distesa delle più svariate suppellettili che attività umana possa concepire e provenienti dalle culture di mezzo mondo – potessero in qualche modo prefigurare metaforicamente l’inesausto peregrinare umano e artistico che ne avrebbe caratterizzato la vita negli anni a venire, fino alla morte.

Come ha scritto il critico e regista – di nuovo, e non appaia un caso – Peter Bogdanovich «guardare Quarto potere è come guardare un artista consumato per la prima volta alle prese con la scoperta inebriante della sua vocazione. Tutte le sue passioni – teatro, magia, circo, radio, pittura, letteratura – all’improvviso si fondono in una sola. […] Non è il suo film migliore, né per lo stile, né per la profondità della visione, ma è quello circondato dall’aura più romantica. Non solo perché aveva venticinque anni quando l’ha girato, e vi appariva d’una bellezza impressionante; o per il contenuto o la forza del racconto, così emozionanti e avventurosi; ma perché è la luna di miele di un artista e della sua arte».

Troviamo qui accennati solo alcuni dei (tanti) motivi che – al pari di una frase di Beethoven o di un verso di Coleridge -, ancora oggi rendono la visione di una qualsiasi sequenza di questa “luna di miele” wellesiana un’esperienza inebriante e appagante come poche per l’audacia espressiva e la passione sperimentale che la investono. Un’opera d’arte “di” cinema, “per” il cinema, “sul” cinema e – come potrebbe essere altrimenti – sull’auctor e sull’uomo Orson Welles, aetatis suae annorum XXV.