Ermanno Olmi ha compiuto ieri ottant’anni. Nato il 24 luglio del 1931 a Bergamo, quartiere Malpensata – sul quale scherza lui stesso quando dice “Spero che quando sono venuto al mondo mia madre l’abbia pensata in modo diverso, ovvero che sia stata una bella pensata l’avermi messo al mondo” – Olmi è un raro esempio di regista cinematografico italiano nato in una famiglia proletaria e sentitamente cattolica. Condizioni materiali e sociali che lo hanno portato a sviluppare una poetica dell’uomo semplice in rapporto prevalentemente armonioso con la natura e con il suo tempo, a focalizzare lo stile del suo cinema sul silenzio, sulla ritualità dei gesti quotidiani.

Fin dai primi documentari sul mondo del lavoro, lo vediamo infatti privilegiare la dimensione umana rispetto a quella delle macchine e della tecnologia. Quando poi farà del cinema narrativo, continuerà – anche stilisticamente – a essere un documentarista che lavora sulla realtà, facendo per circa mezzo secolo un mirabile cinema antropologico.

Secondo figlio di un ferroviere e di un’impiegata di origine contadina, Ermanno Olmi cresce, dopo la perdita del padre nel 1944, alla Bovisa tra le colonie aziendali e i lunghi soggiorni in casa della nonna contadina Elisabetta Ronchi, dalla quale dice di aver appreso “tutto quello che mi è servito nella vita”. Dopo la terza media compie studi irregolari. Frequenta un anno di liceo scientifico, uno di liceo artistico, alcuni corsi di recitazione all’Accademia d’Arte Drammatica di Milano.

Viene poi assunto nel 1949 alla Edisonvolta, dove già lavora la madre, che scompare l’anno seguente. Qui, all’ufficio approvvigionamenti, gli viene affidata l’organizzazione delle attività ricreative aziendali. Così, sfruttando le strutture e gli spazi che l’azienda offre al tempo libero dei dipendenti, il giovane Ermanno ha il primo approccio con il cinema. Tra il 1953 e il 1961 realizza, per la Servizio Cinema della Edisonvolta da lui diretto, decine di documentari, tra cui spiccano La Diga del Ghiacciaio, La Pattuglia del Passo San Giacomo (1954) e Tre Fili Fino a Milano (1958). Veri e propri corti industriali: nel primo si mostra la costruzione di una centrale idroelettrica, mentre nei successivi due i protagonisti sono gli operai manutentori delle linee ad alta tensione.

Nei migliori lavori di questi anni, sia pure cortometraggi documentari, già chiara prevale la narrazione sulla descrizione, mentre lo sguardo dell’Olmi giovane apprendista regista punta alla dimensione umana del lavoro, attento anche ai particolari del quotidiano. “Io indago preferibilmente quei momenti in cui non succede niente”, dirà in un’intervista, dimostrando di essere già pienamente inserito, in maniera forse allora istintiva, nel tracciato principale del nascente cinema moderno.

Olmi realizza il primo lungometraggio, a metà tra il documento e la finzione narrativa, nel gennaio 1959 sulla diga del Venerecolo in Valle Camonica, monte Adamello: Il Tempo si è Fermato. Il film, ancora di produzione Edisonvolta Sezione Cinema, esce in sala nel 1960, è presentato a diversi concorsi e premiato in varie sedi.

Il 22 dicembre 1961 Olmi fonda con alcuni amici, tra cui il critico Tullio Kezich, la casa di produzione 22 Dicembre. Con questa iniziativa, in parte ancora finanziata dalla Edisonvolta, il gruppo intendeva promuovere un giovane cinema d’autore a basso costo, fuori da logiche commerciali. La società viene poi assorbita nel 1965 dalla Titanus, non prima di aver prodotto sei lungometraggi, tra cui l’esordio di Lina Wertmuller (I Basilischi, 1963), e il terzo film narrativo di Olmi stesso: I Fidanzati (1963).

Questo film chiude, dopo quello d’esordio e il successivo Il Posto (1961), una sorta di trilogia sul lavoro e sulla semplicità dei rapporti umani nel quotidiano. Risulta anche quello stilisticamente più ricercato e consapevole, in linea con gli sperimentalismi del momento (nouvelle vague).

Con il successivo E Venne Un Uomo (1965), una particolare intensa biografia di Papa Giovanni realizzata su commissione, si apre una sorta di fase di transizione, contraddittoria nei risultati. Olmi passa dalla lucidità dello sguardo e delle tematiche di Un Certo Giorno (1968), alla parabola troppo esplicita di Durante L’Estate (1971), ad altri episodi non molto azzeccati (come La Circostanza, 1974), ma sempre muovendosi senza compromessi, senza cedere al cinema delle mode e agli allettamenti del botteghino.

Poi arriva il capolavoro dell’intera carriera. “Scrissi quel soggetto a metà degli anni Cinquanta, e avrei voluto esordire con quella storia, ma era troppo impegnativa, non ero pronto. […] Il film segna la fine ufficiale del mondo contadino, la sua data di morte”. Si tratta de L’Albero degli Zoccoli (1978), film di raro spessore, solenne e severo, greve e pur lieve al tempo stesso. La grandezza di questo film risiede, forse, nella sua luminosità – nella capacità, cioè, che l’arte ha di mostrare le cose per quello che sono. Una sorta di poema lirico sulle fatiche dell’Uomo. Vinse la Palma d’Oro a Cannes nel maggio 1978, che resterà l’unica del cinema italiano per i successivi ventitré anni.

Dopo aver diretto una disomogenea allegoria sulla favola dei Re Magi, di produzione Rai (Camminacammina, 1983), Olmi è costretto a sospendere l’attività per una grave malattia. Si ripresenta nel 1987 con Lunga Vita Alla Signora, in concorso a Venezia (secondo ex aequo). Negli anni successivi si segnalano altri importanti episodi, come La Leggenda del Santo Bevitore (1988), parabola un po’ didascalica e contemplativa, che nondimeno si aggiudica il Leone d’Oro a Venezia. Ma soprattutto Il Mestiere delle Armi (2001), film di notevole compostezza visiva, che contiene una profonda riflessione sui temi della morte, dell’onore e del coraggio, carica di tensione etica. Il capolavoro della maturità. Appellativo da condividere con il suo ultimo film narrativo, come da lui stesso dichiarato, Centochiodi (2007), anch’esso visivamente magnifico. Ermanno Olmi riceve quindi un meritato Leone d’Oro alla carriera a alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2008.

Poeta dei poveri, Olmi ha imparato negli anni a essere attento al linguaggio segreto del cinema, che è muto anche nel cinema sonoro. Cifra stilistica della maturità e della piena consapevolezza artistica, che in lui si era intuito essere presente fin dai primi lavori. Auguri quindi al regista bergamasco, centodiquestigiorni, anche per il sublime privilegio, regalato a molti di noi, di poter godere di un capolavoro come L’Albero degli Zoccoli senza l’ausilio di sottotitoli.