Risulta compito alquanto arduo collocare sul nostro personale asse del tempo il primissimo, ingenuo e inconsapevole incontro con il genere musical. Quel che non si può non ricordare con dovizia di particolari – soprattutto circa l’atmosfera che si respirava – è dove avvenne, luogo classico tra i più classici: il divano del salotto di casa, sul quale tradizionalmente si ritrovava tutta la famiglia per il consueto film di prima serata a conclusione del telegiornale delle 20, quando al televisore – una volta superata la valutazione da parte degli adulti dei titoli in programma (anche se grazie al “giornalino della tivù” talvolta già da giorni si poteva fantasticare su quanto ci attendeva) – erano le immagini delle pellicole western di John Ford o di un qualsiasi film con interprete John Wayne che ci venivano proposte (quasi consegnate, ci viene da dire adesso, con il senno di poi).

Tra questi fotogrammi, una sera di chissà quando (i ricordi tornano a una versione del divano veramente datata!), si sono “incastrati” gli sgargianti colori degli abiti e le scatenate piroette dei protagonisti di Sette spose per sette fratelli (Seven Brides for Seven Brothers, 1954, Stanley Donen). Davvero difficile ricostruire come si sia arrivati per la prima volta davanti a quelle per noi inconsuete sequenze, frutto di un probabile misunderstanding paterno, essendo l’opera una sorta di musical con contaminazioni western, se non nelle circostanze descritte almeno nell’ambientazione.

Certo è che ormai da appassionati di cinema e della sua storia più che centenaria, la nostra preferenza – a parte la fulminante mezz’ora di In Vespa, primo capitolo del morettiano Caro diario (1993) alla ricerca di Jennifer Beals e delle locations per il film musicale su un «pasticciere trotzkista nell’Italia conformista degli anni Cinquanta» – è sempre andata a un’altra pellicola dello stesso Donen, impreziosita ai nostri occhi dalla presenza di un’autentica gemma incastonata al suo interno, gioiello che con il tempo abbiamo imparato a conoscere meglio, citare di frequente e ringraziare parecchie volte: stiamo parlando di Cantando sotto la pioggia (Singin’ in the Rain, 1952) e del suo protagonista maschile, Eugene (Gene) Curran Kelly.

Il recentissimo Festival del Film di Locarno ha reso omaggio con una esaustiva retrospettiva a un altro grande autore che ha dato lustro al genere, Vincente Minnelli, e così facendo ha riproposto – tra i molti altri titoli della sua filmografia – una delle performances di Kelly in assoluto più famose, che proprio in queste settimane compie sessant’anni, essendo la pellicola in questione uscita nelle sale nell’agosto 1951: una stagione ideale per godersi l’escursione in musica e danza tra le sette note (dei fratelli George e Ira Gershwin) di Un americano a Parigi (An American in Paris).

A parte le sequenze anche criticamente più celebrate (si pensi a quella finale), la memoria torna più che volentieri alla lezione di lingua inglese tenuta ai bambini del proprio quartiere da Jerry Mulligan (Gene Kelly), ex soldato statunitense trattenutosi a Parigi dopo la fine della guerra per intraprendere la carriera di pittore, che si trasforma in breve in un incontenibile inno alla gioia di vivere.

Per chi riassapora ogni volta come se fosse la prima volta lo choc provato di fronte alla silenziosa bellezza degli spazi siderali “saldata” agli accordi straussiani de Sul bel Danubio blu, anche solo chiudendo gli occhi la figura, le movenze, le invenzioni coreografiche di Kelly nello spazio di pochi metri di studio e pochissimi minuti di pellicola ancora oggi rivelano un che di inspiegabilmente prodigioso, che richiama quella medesima, immediata e “semplice” grandezza intuita davanti ai fotogrammi kubrickiani: «I got rhythm / I got music / I got my girl / Who could ask for anything more? / Who could ask for anything more? / I got daisies / In green pastures, / I got my girl / Who could ask for anything more ? / Who could ask for anything more? / Ol’Man Trouble, / I don’t mind him / You won’t find him / ‘Round my door».

Un sentimento che, per restare al film di Minnelli, personalmente ci viene ribadito una ventina di minuti dopo, quando Jerry, che ha finalmente conosciuto e ottenuto il suo primo appuntamento dalla graziosa Lise (Leslie Caron, al suo esordio sul grande schermo), torna dal suo spiantato amico pianista (Oscar Levant) tutto ancora pieno di quanto l’ha appena investito: «This time it’s really love / Tra-la-la-la / I’m in that blue above / Tra-la-la-la / She fills me full of joy / Tell me, papa. / Am I not a lucky boy? / Tra-la-la-la / Just listen to my heart / Go pitter-patter / It’s started from the start / I’ve fallen like that / Humming, strumming, singing, drumming / What a thrill / I’m getting from it / Tra-la-la-la».

Lì lo spazio a disposizione è addirittura una cameretta, ingombra di cose, tra cui il pianoforte a coda su cui l’amico sta cercando l’ispirazione. In questa situazione Kelly riesce nel miracolo di “ballare” non nonostante ma con quanto ha intorno pur trattandosi di oggetti inanimati, quasi li vedesse come improvvisi pretesti alla propria danza, coinvolgendoli quali inaspettati partners nella sua allegria incontenibile e che da questa sembrano addirittura trarre vita e significato: il coperchio (chiuso) della cassa orizzontale del pianoforte, i suoi tasti, una gamba dello stesso, il cappello a tese dell’amico, gli stipiti della porta d’ingresso e così via…

Ripensando alle prodigiose sequenze a cui è legato il nome di Gene Kelly in questo film come in altri capolavori del genere – come non citare per l’occasione, ad esempio, lo scatenato duetto Moses supposes con Donald O’Connor nel già citato Cantando sotto la pioggia del quale si può dire esattamente quanto già scritto e certamente anche di più -, è impossibile non riaprire gli occhi, guardarsi intorno o dare un’occhiata fuori dalla finestra senza (ri)sorprendersi a (ri)dire a se stessi: «È sempre bel tempo!».