Des hommes et des dieux. Degli uomini e degli dei. E in effetti già di entrambi ci parla il salmo 81, un cui brano sta esattamente in capo alla pellicola che il programma del Meeting di Rimini propone questa sera alle ore 21:45 in Sala Neri, ovvero – come il titolo originale è stato poi reso al momento della distribuzione in Italia lo scorso mese di ottobre – Uomini di Dio (Xavier Beauvois, 2010, 117’), Grand Prix e Premio della giuria ecumenica alla 63ª edizione del Festival di Cannes: «Dio si alza nell’assemblea divina, / giudica in mezzo agli dei. / “Fino a quando giudicherete iniquamente / e sosterrete la parte degli empi? / Difendete il debole e l’orfano, / al misero e al povero fate giustizia. / Salvate il debole e l’indigente, / liberatelo dalla mano degli empi”. / Non capiscono, non vogliono intendere, / avanzano nelle tenebre; / vacillano tutte le fondamenta della terra. / Io ho detto: “Voi siete dei, / siete tutti figli dell’Altissimo”. / Eppure morirete come ogni uomo, / cadrete come tutti i potenti. / Sorgi, Dio, a giudicare la terra, / perché a te appartengono tutte le genti».



Nel maggio di un anno fa, dopo la proiezione in concorso sulla Croisette, si sono potute leggere sui quotidiani italiani alcune recensioni tutt’altro che lusinghiere, che addebitavano al film un certo pressappochismo nella lettura e nell’approfondimento del contesto storico-politico in cui è maturata la vicenda così come raccontata. Giudizi esemplificativi della posizione nella quale anche chi scrive si era ritrovato dopo la prima visione della pellicola, salvo poi ricredersi durante le successive una volta scoperte – quasi come una sorta di “porta di ingresso” a quanto mostrato nell’opera – modalità e funzione dei quattro capitoli dei religiosi, non un momento di umana democrazia tra monaci ma, nella loro unità (all’inizio anche non apparente), l’accadere di un Altro presente che eccede quegli otto volti riuniti intorno a un tavolo e a una candela accesa, quest’ultima segno quasi impercettibile che acquista sempre più pregnanza visiva e narrativa con il succedersi delle quattro sequenze.



Poco prima della loro “Ultima Cena” – un toccante congedo in vista di ogni eventuale ulteriore tragico sviluppo, con tanto di simbolica (e commossa) consumazione da parte di ciascuno dei personali calici -, nell’ultimo di questi capitoli, padre Christian confessa ai suoi confratelli: «Ho ripensato a lungo a quel momento, quel momento in cui Ali Fayattia e i suoi uomini sono andati via. Quando se ne sono andati, tutto quello che ci restava da fare era vivere. E la prima cosa da vivere è stata, due ore dopo, la celebrazione della vigilia e la messa di Natale. Era quello che dovevamo fare ed è quello che abbiamo fatto. Abbiamo cantato il Natale e abbiamo accolto il bambino che si presentava a noi, assolutamente privo di difese eppure già così minacciato. E dopo la nostra salvezza è stata di avere compiti quotidiani da svolgere: la cucina, il giardino, gli uffici, la campana, giorno dopo giorno, e siamo dovuti restare disarmati. E giorno dopo giorno, io, e – credo – noi, abbiamo scoperto quello a cui Gesù Cristo ci chiama. È a nascere. La nostra identità di uomini va da una nascita all’altra, e da una nascita all’altra finiremo anche noi per far nascere questo figlio di Dio che siamo noi, perché l’incarnazione per noi è lasciare che la realtà filiale di Gesù si incarni nella nostra umanità. Il mistero dell’incarnazione è proprio quello che tutti noi vivremo. È così che si radica quello che abbiamo già vissuto qui e quello che dobbiamo vivere ancora».



Sulle ultime immagini della pellicola, velate di neve e nebbia, si impone la voce fuori campo sempre di Christian che recita un brano di quel testamento spirituale che gli abbiamo solo visto firmare e chiudere in busta durante il film: «Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo Paese. Che essi accettassero che l’unico Padrone di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale. […]. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimé, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca. […]. So il disprezzo con il quale si è arrivati a circondare gli algerini globalmente presi. So anche le caricature dell’Islam che un certo islamismo incoraggia. È troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con gli integralismi dei suoi estremisti. […]. Di questa vita perduta, totalmente mia, e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per quella gioia, attraverso e nonostante tutto. In questo grazie, in cui tutto è detto, ormai, della mia vita, includo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e ai loro, centuplo accordato come promesso! […] E anche te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie e questo adDio profilatosi con te. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen! Insc’Allah».

Non appaia falso pudore nei confronti della storia vera raccontata dal film, ma una posizione umana così espressa, per come ci raggiunge, la si può anche recensire, “giudicare”, ma per farlo (e fino in fondo) non la si può che innanzitutto domandare anche per sé, se non proprio abbracciare. Come ci è riaccaduto quest’anno – per restare all’esperienza in sala – attraversando i 140 minuti dell’“Albero della Vita” malickiano, altra vertiginosa opera sul drammatico rapporto io-tu, dove l’Altro è il Mistero buono che ha fatto (e fa) essere tutte le cose.

Davvero una buona visione quindi a quanti stasera si (ri)troveranno a fare i conti con la vicenda dei nove “testimoni” dell’Atlante algerino: «E l’esistenza diventa una immensa certezza».

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