Nel 2008 – dopo il Leone d’argento per Lunga vita alla signora! (1987) e il Leone d’oro per La leggenda del santo bevitore (1988) – è venuto a ritirare un altro Leone, quello d’oro alla carriera. Quest’anno sarà invece presente fuori concorso con la sua ultima fatica, Il villaggio di cartone. Ma il rapporto di Ermanno Olmi (80 anni computi lo scorso 24 luglio) con il Festival di Venezia affonda le proprie radici in tempi più lontani. Eppure il mondo – tra logiche, gerarchie, disoccupazione (anche giovanile) e ricerca di un posto di lavoro – e soprattutto il cuore dell’uomo – con le sue misteriose intermittenze e irriducibili dinamiche – non sembrano essere poi cambiati così tanto…

Cinquant’anni fa – era l’1 settembre 1961 – il trentenne regista di origini bergamasche venne inserito fuori concorso (su sua richiesta) nella cosiddetta Informativa della XXII Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica con quello che era il secondo lungometraggio a soggetto della propria carriera, in quanto di due anni successivo al film documentario Il tempo si è fermato (1959), prodotto dalla Sezione Cinema della Edisonvolta (per la quale aveva realizzato il suo primo corto “industriale” nel 1954) e presente sempre fuori concorso all’edizione n. 20 del Festival, portando a casa il Premio San Giorgio.

Il posto (1961) – proprio per la natura e le vicende produttive della pellicola appena ricordata – si può quindi considerare il suo primo vero film, essendo stato realizzato dalla Titanus e da The 24 Horses, società costituita soprattutto con denaro di amici ma anche con capitali della Edison, desiderosa di diversificare le proprie attività. L’opera – al Lido in compagnia di lavori quali Accattone, esordio dietro la macchina da presa del “corsaro” Pier Paolo Pasolini, e Banditi a Orgosolo, primo lungometraggio del documentarista Vittorio De Seta – ricevette tre riconoscimenti: il Premio OCIC (Office catholique international du cinéma), quello del Sindacato Giornalisti Cinematografici Italiani e il Città di Imola, assegnato al miglior film italiano presente alla Mostra.

Potrebbe anche sorprendere – anche se la sorpresa arriva fino ad un certo punto – ma tale titolo appare più frequentemente di quanto non si pensi nell’elenco delle pellicole più amate dai colleghi stranieri di Olmi, tra cui Martin Scorsese e Krzysztof Kieslowski. Ma gli “autori” non sono i soli. Ecco come ne ha parlato, per fare solo un esempio, il carismatico attore Benicio Del Toro: «Un vero capolavoro che purtroppo in America è impossibile trovare. Io sono riuscito a vederlo solo perché Terrence Malick mi ha prestato una videocassetta che ha scovato non so dove. Ma Il posto dovrebbe essere un film disponibile in tutte le videoteche del mondo».

E il ritroso regista texano tirato in ballo cosa ne pensa in proposito? Il suo parere, espresso in occasione di quel vero e proprio evento che fu il suo incontro-lezione sul cinema italiano nell’ambito dell’allora Festa Internazionale del Cinema di Roma, è che «(è) un film molto bello. Mostra quello che succede quando una persona viene schiacciata dal mondo. È qualcosa che, almeno in parte, tutti finiamo con l’accettare, sapendo che c’è qualcosa di più forte di noi che domina il pianeta. Eppure, Olmi è straordinariamente abile nel mostrarci che c’è una piccola, vivida fiamma che brucia (…) che non si spegnerà. È solo appena accennato e lo spettatore rimane nel dubbio. Ma questo è parte integrante del suo fascino. È un film elegantissimo e ricco di umorismo sottile. Solo raramente fa ridere ad alta voce (…). Ma non è solo un gran film, ha sempre già avuto qualcosa come il respiro di un classico. È davvero un capolavoro».

A proposito di fiamme che non si spengono, nel 1985 lo stesso Olmi ha avuto modo di ricordare il momento in cui «dopo aver cominciato a frequentare assiduamente gli spettacoli cinematografici del dopoguerra, con tutta la ventata di “americanità” che si portavano dietro, vidi Roma città aperta. (…) (F)u la scoperta di un cinema che era la vita, che non divideva lo schermo dalla strada, ma proponeva una continuità per mezzo di quel mediatore ideale che è, o dovrebbe essere, il poeta. […] Il cinema fu per me, più che un’emozione, una specie di ceffone liberatorio. La sberla che presi da Roma città aperta mi mise in un rapporto diverso con tutto il cinema che, da spettatore, frequentai. (…) Mi resi conto che andavo al cinema non più per sognare, ma per capire qualche cosa in più della vita».

In un più recente e preziosissimo libro-intervista il regista, richiesto di un proprio personale auspicio sul futuro del cinema, ha risposto augurandogli «di avere degli artefici reali, che non usino il cinema per imbrogliarci, per orientarci secondo scelte che non ci rendono liberi, e quindi auspico un cinema che sia amico degli spettatori. Amico. A-mi-co». Un’idea correlata a quella della settima arte in primis come forma di rapporto riaffermata all’uscita del suo Cantando dietro i paraventi (2003): «Se io ho stima di un cineasta, vado al cinema e vedo il suo film, che magari non è ben riuscito: non fa niente. Il prossimo magari mi soddisferà di più. Ma comunque sia, sento di essere stato in compagnia di un amico perché non mi voleva imbrogliare. Capita anche a te di dire una frase che magari non è espressa al massimo della sua felicità rappresentativa, ma l’amico ti capisce, ugualmente, e questo perché dietro c’è il desiderio di comunicare, quindi di essere in comunione, in unione comune».

Giudizi e criteri che di rado si sono potuti sentire da chi ha delle responsabilità – a qualunque titolo e livello – in un’industria come quella del cinema ma nemmeno, più in generale, in un campo come quello della comunicazione e che costituiscono un utile e provocante promemoria, di certo non limitato all’eventuale visione del prossimo film che ci capiterà di vedere.