«Chi poco semina poco raccoglie. Chi vuole bella messe getti la propria semenza in un luogo così grato che Dio lo ricompensi duecento volte, perché in terra che non vale anche il buon seme secca e viene meno». Chissà se il cineasta statunitense naturalizzato inglese Terry Gilliam (71 anni il prossimo 22 novembre) avrà buttato anche solo un’occhiata veloce all’incipit del Perceval o Il racconto del Graal di Chrétien de Troyes – uno dei capolavori, se non il capolavoro, della poesia medievale; per molti critici secondo solo alla Divina Commedia dantesca – prima di lanciarsi nell’avventura produttiva del suo La leggenda del Re Pescatore (The Fisher King, 1991): «Sul set […] aspettavano che io chiedessi qualunque cosa. “Io voglio” è l’unica cosa che sono abituati a sentire. E quel che volevo io era solo che fossero partecipi… Volevo che conoscessero la sceneggiatura, volevo che facessimo lo stesso film, volevo che mi proponessero idee… è più facile lavorare così, circondati di idee, con persone coinvolte, che non si limitino a pensare che io so ogni cosa. […] E non capiscono cosa succede, o perché gli si chieda di fare qualcosa. Nel giro di qualche settimana, però, li ho coinvolti ed è stato bello, perché hanno capito che li rispettavo e che le loro idee erano importanti. Allora ci siamo divertiti».

Resta il fatto che un regista “altro” come pochi rispetto al sistema hollywoodiano (e per questo ricambiato dall’industria della cosiddetta “fabbrica dei sogni” con un sospettoso distacco, quasi si trattasse di un novello Erich von Stroheim o di un redivivo Orson Welles), dopo le sfortune lavorative e il fiasco commerciale del pur magnifico Le avventure del barone di Munchausen (The Adventures of Baron Munchausen, 1989), decise per la prima volta nella sua carriera – iniziata poco meno di vent’anni prima in Inghilterra grazie all’incontro con quelli che, insieme a lui, sarebbero diventati i Monty Python – di affidarsi ad un uomo della più potente agenzia di Hollywood, la Creative Artists Agency (C.A.A.), grazie al rapporto col quale gli capitò di mettere le mani sullo script dell’esordiente Richard LaGravenese, steso in più versioni da quest’ultimo dopo la lettura di He: Understanding Masculine Psychology di Robert A. Johnson, nel quale l’autore fornisce una chiave di lettura junghiana del mito di Parsifal e della sua quest sulle tracce del Santo Graal.

Chi l’avrebbe detto che, da una circostanza così radicale per un “irregolare” come lui – che per la prima volta nella lavorazione di un film si trovava ad aggrapparsi ad una sceneggiatura totalmente non sua – e da un mix così eterogeneo, sarebbe emersa un’opera che ha costituito il suo più deciso successo di pubblico (The Fisher King risultò per quattro settimane consecutive il maggiore incasso al box office statunitense) e che l’ha idealmente inserito tra i cantori della Grande Mela, quella metropoli cosmopolita già ritratta con diversi stili, accenti ed esiti da autori “indigeni” quali Martin Scorsese, Woody Allen e Spike Lee? E come dimenticare – tra i vari riconoscimenti che venti anni fa hanno gratificato gli attori e lo sceneggiatore di questa pellicola – il Leone d’argento che la giuria della XLVIII Mostra del Cinema di Venezia ha riservato a Terry Gilliam stesso, premio speciale per la regia ex-aequo con Zhang Yimou per Lanterne rosse (Dahong Denglong gaogao gua, 1991) e Philippe Garrel per Non sento più la chitarra (J’entends plus la guitare, 1991)?

Anche un pur brevissimo estratto dall’elenco delle vicissitudini che hanno punteggiato la sua carriera dietro la macchina da presa potrebbe rappresentare più di uno spunto utile per capire nel concreto quello che è il lavoro del “fare cinema”, con, da un lato, la sua imprescindibile componente di artigianalità (il padre di Terry era carpentiere e Gilliam stesso era nato come vignettista satirico dopo studi che lo avevano visto dedicarsi – tra gli altri corsi – alla storia dell’arte), e, dall’altro, in quanto industria, l’ovvia necessità di far quadrare i conti: «Io vorrei dare al pubblico la possibilità di essere intelligente. Buona parte del cinema di Hollywood manipola le persone, le tratta da stupide, e spesso lo sono. Io amo l’idea di realizzare film per il grande pubblico che dicano agli spettatori: siete persone intelligenti. Non è che voglia traumatizzarli, vorrei solo che uscissero riflettendo un po’. […] Se si possono fare film per il grande pubblico che cambino la gente, è un bene. Per esempio, alla Grand Central Station oggi c’è un’orchestra che suona: non so se sia davvero grazie a La leggenda del Re Pescatore, ma la cosa è iniziata comunque dopo il film. Suona ogni capodanno e la gente balla! Forse abbiamo cambiato il mondo…».

Certo è che oggi fa ancora la sua bella impressione ritrovare, nell’incipit di una pellicola la cui fonte originale è il romanzo che narra della genesi del cavaliere Parsifal e della sua domanda trattenuta, rimandata, non posta per il timore di parlare a sproposito in presenza dell’infermo Re Pescatore, quel vuoto «Perdonami!» ripetuto unicamente davanti a se stesso dal disc-jockey Jack Lucas (Jeff Bridges), un refrain che dovrebbe rappresentare l’inizio della celebrità e che invece gli apre le porte di un personalissimo Inferno, un percorso espiatorio che lo condurrà alla domanda e al perdono autentici, sinceramente implorati sul letto d’ospedale dell’amico Parry-Parsifal (Robin Williams): «In La leggenda del Re Pescatore ero molto teso per paura di essere troppo sentimentale – è una cosa che odio! Hitler amava il sentimentalismo! Hitler e Hollywood.
È ridicolo. L’amore è un’altra cosa. Si accompagna al sacrificio: quanto vuoi davvero una cosa? A cosa sei disposto a rinunciare per averla? […] Io stesso mi scopro a domandarmi come si possa parlare d’amore senza metterci tutti i suoi aspetti. Ma in fondo ci sono tanti tipi d’amore». E se uno fosse – ci verrebbe da dire davanti alla “parabola” del Fisher King – riconoscere il mistero che siamo?