Il 10 gennaio 1927 veniva presentato al pubblico dell’Ufa-Palast di Berlino un film di straordinario impatto visivo, a tratti profetico, destinato a diventare un cult della storia del cinema: Metropolis di Fritz Lang. Costato alla grande casa di produzione tedesca Ufa il quasi fallimento, il film fu un primo esempio di colossal fantascientifico, tratto da un contorto soggetto di Thea Von Harbou, allora moglie del regista. La sua lavorazione durò infatti diciannove mesi: furono impressi oltre seicentomila metri di pellicola (un film medio finito non va oltre i tremila), utilizzati migliaia di comparse e tecnici di ogni specializzazione, vennero costruiti effetti visivi e scenografici ingegnosi e costosi, grandiosi e rivoluzionari per l’epoca. Il tutto per realizzare un progetto nato, come detto, da un soggetto della Von Harbou, nel quale si mescolano, in modo sinistro e caotico, passato arcaico – quasi ancestrale – e futuro fantascientifico.

La vicenda si ipotizza svolgersi nella futuristica città di Metropolis nell’anno 2026, cento anni dopo la realizzazione del film. In quel momento la megalopoli del futuro è divisa in due livelli. Sulla superficie, la zona ricca, la città è una gigantesca ed elegante macchina che si muove senza sosta, governata dallo scienziato John Frederson. Nei sotterranei, in una città speculare con palazzi ciechi e piazze senza luce, vivono gli operai schiavi, forza lavoro composta di automi senza volto.

Un giorno, il figlio del signore, Freder Frederson, intento allo sport nel grande bellissimo stadio, scopre la presenza degli esseri sotterranei tramite una di loro, la giovane maestra Maria. Questa vive predicando ai disperati del sottosuolo pace e speranza. Il giovane Freder si innamora di lei. Il padre-signore, saputolo, ordina allo scienziato Rothwang di costruire un automa, di nome Bel, sosia di Maria, ma con sentimenti opposti. Questo, mandato nella città sotterranea per seminare discordia, provoca una rivolta tra gli operai e un’inondazione che rischia di colpire i sotterranei della città. Solo la lotta giusta della vera Maria e di Freder riuscirà a evitare la catastrofe, riconciliare le parti e stabilire un nuovo ordine sociale.

Un intreccio di temi sorregge la trama moraleggiante del film. Troviamo il doppio, cioè la buona Maria e l’automa cattivo Bel, tema tipico dell’espressionismo tedesco, movimento cui Fritz Lang aderì nei primi anni e da cui seppe discostarsi molto, unico tra gli originari adepti, lungo la sua ricca carriera. Poi vi troviamo le istanze profetiche, come il discorso sulla possibilità di manipolazione e sottomissione delle masse. Ma il tema dominante è forse quello della rivolta dell’uomo contro la macchina, anche se il finale del film, contraddittorio, pare negarlo quando sfocia in un apologo reazionario sulla necessità dell’obbedienza sociale (infatti il film piacque molto a Hitler e Goebbels). Straniante anche il mix di simbologie utilizzate, ora di matrice cristiana – la falsa Maria che, cavalcando un drago, evoca l’Apocalisse di S. Giovanni – ora di provenienza neopagana, come la grande macchina nuovo dio della tecnica, il gigantesco Moloch che fagocita esseri umani.

Metropolis è diventato negli anni film di culto, oggetto di considerazioni critiche di segno diversissimo. Lo scrittore inglese H. G. Wells, tra gli iniziatori del genere fantascienza – autore de La Guerra dei Mondi (1898) – alle cui storie tra l’altro la Von Harbou si ispirò per la sua, lo definì “uno dei peggiori film mai fatti”. Luis Bunuel, malgrado l’avversione al suo contenuto narrativo, giudicato troppo banale, pedante e vetero-romantico, non poté però non notarne, lodandola, la meravigliosa messa in scena.

Infatti, il già commentato racconto reazionario e apologetico della Von Harbou fu reso dal genio di Lang con immagini simboliche tra le più potenti di sempre, secondo una messa in scena esemplare. Le masse di schiavi tutti uguali che si muovono come automi, lo stadio ciclopico, l’automa con il volto di Maria, la macchina che divora i lavoratori come il Moloch, il mito della torre di Babele, le torri della città ricca a metà strada tra futuro e Medioevo, l’infernale città sotterranea, sono tutte immagini molto forti, simboliche e complesse, che riferiscono di un cinema fatto quasi solo per inquadrature autonome, addirittura autarchiche, ben composte e bastanti a se stesse. Testimoniano di un film definito da alcuni un capolavoro del cinema decorativo, un delirio visivo. Diverse di queste immagini si sono poi meritate numerose citazioni, lungo tutta la storia del cinema, in epoca contemporanea soprattutto con Guerre Stellari (G. Lucas, 1977), dove è citato l’automa Bel, e poi Blade Runner (R. Scott, 1982) e Terminator (J. Cameron, 1984).

Del film esistono diverse versioni, dovute al fatto che il primissimo cut, quello proiettato appunto nel gennaio del ’27, non riscuotendo da subito il successo sperato, venne pesantemente modificato dalla produzione contro il volere dello stesso Lang. In mancanza della versione filologica, la migliore ricostruzione avvenuta in tempi recenti è quella curata da Enno Patales, effettuata presso la Cineteca di Monaco nel 1984, della durata, prossima all’originale, di 147’. Dello stesso anno è la versione del musicista italiano Giorgio Moroder, che sul montaggio di 87’ previgente al restauro di Patales innesta colori virati e musica rock, con canzoni tra gli altri di Freddy Mercury e Pat Benatar. In essa la musica aggiunta da Moroder appare curiosamente adattissima alle immagini, come se il genio di Fritz Lang avesse visivamente colto una qualche caratteristica del futuro, che trova la sua espressione nelle note delle canzoni rock degli anni Ottanta.

Anche se frutto di operazione discutibile, la versione ridotta di Moroder, in mancanza della copia filologica del film, ha il pregio di rispecchiare quello che esso rappresentò, emotivamente, per gli spettatori dell’epoca. Ma oltre tutto ciò, e nonostante il gusto kitsch della storia, è ancora Fritz Lang a impressionare quale autentico maestro della settima arte, poiché con Metrolopis riesce a ottenere un rapporto perfetto tra forza simbolica delle immagini e scorrevolezza del racconto. Mostrare e raccontare, vale a dire l’essenza del cinema.