Amore e morte, sesso e distruzione, piacere e crisi sono i temi che fanno di Ultimo tango a Parigi un film con piena dignità di opera d’arte, soprattutto per il modo in cui questi motivi profondi vengono affrontati”. Così recita, tra l’altro, il dispositivo di archiviazione del febbraio 1987 con cui il capolavoro di Bernardo Bertolucci, di cui in questi giorni ricorre il quarantennale, viene definitivamente sollevato dal procedimento penale per offesa al comune sentimento del pudore.

Provvedimento che ha concluso le lunghe peripezie legali del film, iniziate con le prime denunce del 1972 che condussero alla sentenza in Cassazione di condanna “al rogo” del gennaio 1976, cui si aggiunse nel settembre 1982 una denuncia a Bertolucci per “spettacolo osceno”, in occasione di una proiezione pubblica non autorizzata di una copia del film di proprietà personale del regista. Vicende giudiziarie che fanno di Ultimo tango a Parigi una delle pellicole italiane più censurate della storia, superata forse solo da Salò o le 120 Giornate di Sodoma (1975) di Pasolini.

L’ufficiale ritorno in circolazione del film, dopo la riabilitazione del 1987, non significa però che i temi ivi trattati non siano più incisivi, provocatori, o che risultino ormai datati. Significa piuttosto che le usanze cambiano con gli anni, e la scandalosa sequenza del “burro” non scandalizza più e può riacquistare la sua giusta collocazione autoriale. 

In una Parigi autunnale, splendidamente fotografata dalla luce pastosa di Vittorio Storaro, due sconosciuti si incontrano per caso in un appartamento sfitto, semivuoto e con moquette rossa in tutte le stanze. Lì fanno l’amore furiosamente e poi si separano. Sono Paul (Marlon Brando), americano non più giovane dal passato oscuro e movimentato, e Jeanne (Maria Schneider), giovane attrice francese. Paul è proprietario di un albergo, dove la moglie Rosa si è appena suicidata tagliandosi i polsi. Jeanne deve girare un film-tv per il fidanzato regista, Tom.

I due sconosciuti amanti si trovano ancora nell’appartamento-alcova, dove decidono di continuare a incontrarsi senza rivelarsi nulla l’uno dell’altra, nemmeno i propri nomi. Conducono così una doppia esistenza, divisa tra lo spazio franco dell’appartamento, in cui sperimentano una profonda intesa erotica, e le rispettive vicende esterne.

Paul indaga sul suicidio della moglie, incontrando anche il di lei ex-amante. Jeanne interpreta per Tom il suo film-tv, dove si rievoca l’infanzia del regista e il rapporto di lui col padre colonnello dell’esercito, morto nel ’58 in Algeria. Intanto Paul e Jeanne, nello spazio rosso, continuano i loro giochi erotico-tantrici e porno-verbali che gradualmente intaccano il loro precario equilibrio, fino a quando Paul sodomizza la ragazza con l’ausilio di un panetto di burro, forzandola a recitare un discorsetto contro la famiglia.

Il fidanzato Tom la chiede in sposa, mentre Paul, sinceramente affranto, veglia il cadavere della moglie nella camera ardente del suo albergo. Poi Jeanne, nel tentativo di troncare gli incontri clandestini con Paul, chiede al fidanzato di affittare l’appartamento-alcova, ma a Tom il luogo non piace. Ora Paul pretende di essere innamorato della ragazza, le chiede di rivelargli il suo nome, si incontrano in una gelida sala da ballo, dove è in corso una gara, e danzano insieme un ultimo tango.

Poi Jeanne si congeda, Paul la insegue e lei fugge. La ritrova nella residenza cittadina della madre di lei, dove i due hanno un’ultima discussione. Lei gli spara con la pistola del colonnello (del film-tv), Paul attacca il chewing-gum sotto la ringhiera del balcone, guarda sognante i tetti di Parigi e si accascia al suolo, morto. Jeanne, attonita, conclude recitando: “Mi ha seguito per la strada e voleva violentarmi, è un pazzo. Il suo nome non lo so, non so come si chiama. Uno sconosciuto”.

Il vuoto, la frammentazione, la psicoanalisi, la malinconia e la solitudine, la fragilità dei sentimenti  e la distanza tra i sessi, il risaputo intreccio eros-thanatos: queste in sintesi le tematiche toccate, a vari livelli, dal più famoso film di Bernardo Bertolucci. Temi per lo più tipici del cinema moderno, quello che spesso frustra lo spettatore assetato di risposte univoche, ma qui indagati con una stilizzazione insolita per l’epoca, quasi estrema e certamente volontaria, che anticipa il post-moderno.

Oltre a ciò, l’inizio dell’onda lunga che porta fino al cinema del post-moderno si intravede anche nella miriade di riferimenti extratestuali alla storia del cinema (citazioni) presenti nel film. La stratificazione di rimandi, interni al testo filmico, che richiama il mondo del cinema e la sua storia è ampissima, e caratteristica dello stile del primo Bertolucci. Ultimo tango a Parigi, in questo senso, è soprattutto un film che ci parla degli anni dopo la “rivoluzione”, su almeno due livelli: quello culturale in genere, quindi anche dei costumi sessuali, e quello culturale riferito alla storia del cinema, cioè alla sua – del cinema – sorte stilistica e poetica dopo la rivoluzione imposta dalla nouvelle vague e da tutti gli altri autori moderni degli anni Sessanta (Antonioni e Cassavetes su tutti).

L’immensa fama del film si deve anche alla magnetica interpretazione di Marlon Brando, che dà volto a un personaggio complesso e affascinante. Nel già ricordato spirito citazionista del film, Brando, ovviamente, interpreta anche se stesso, ovvero l’anticonformista, il ribelle e il bad guy dell’industria americana dello spettacolo che egli è stato. Il Brando del film, bellissimo nel suo cappotto di cammello e col capello lungo grigio, è divenuto nel tempo un’icona della generazione post-sessantotto, elemento che insieme alla “musicale mobilità” – come scritto da molti critici – della macchina da presa di Bertolucci e alla splendida fotografia di Storaro, ha fatto di Ultimo tango a Parigi un film visivamente indimenticabile.