«Il Tempo e gli anni sono entrambi elementi essenziali al film. È da qui che traggono origine i personaggi: essi sono cambiati, in alcuni casi hanno rifiutato le loro identità passate, persino i loro nomi, eppure sono rimasti, loro malgrado, legati al passato, alla gente che conoscevano e a quello che erano. Hanno preso strade diverse; alcuni hanno visto realizzarsi i loro sogni o i loro peggiori incubi, altri sono falliti. Tuttavia, essendo nati, per così dire, dallo stesso embrione, finita l’incosciente sicurezza della gioventù, essi vengono riuniti dalla forza che li ha divisi e resi nemici – il Tempo».
Dopo la presentazione sulla Croisette in occasione dell’ultimo Festival di Cannes e solo per un pugno di giorni di programmazione, consistente come una densa nuvola (ma non di oppio) che si fosse fatta strada in un terso cielo autunnale e fugace come una cometa riapparsa a illuminare con la sua leggendaria scia il buio delle sale cinematografiche, è ora finalmente visibile anche al pubblico italiano la versione più lunga mai editata (più di quattro ore) di C’era una volta in America (1984) di Sergio Leone, restaurata dalla Cineteca di Bologna in associazione con Andrea Leone Films e con il contributo di Gucci e The Film Foundation di Martin Scorsese.
Meglio comunque parlare di versione “extended” più che di integrale, in quanto quest’ultimo aggettivo corre l’involontario rischio di fare suonare nella testa degli appassionati una sorta di campanello d’allarme, quasi a sminuire il valore di quella da 220 minuti fino a oggi in circolazione e a suo tempo approvata da Sergio Leone stesso, il quale in un suo scritto affermava che «[l]a versione per le sale, già di tre ore e quaranta minuti, non poteva essere appesantita con scene girate e previste per essere mostrate solo al pubblico televisivo, anche se condannate a rimanere nel dimenticatoio o reliquie di un progetto mai nato». Il riferimento era alle sei sequenze da lui girate sul set, ma poi definitivamente cadute in sala di montaggio (e finora conservate dai suoi eredi sotto forma di positivo: elemento che non ha certo favorito il loro processo di restauro e reinserimento nella pellicola del 1984) per via di un accordo con le reti televisive per mantenere un metraggio identico tra la versione presentata trionfalmente e purtroppo fuori concorso, per scelta dello stesso Leone, domenica 20 maggio 1984 alla 37ª edizione del Festival di Cannes e la copia che sarebbe poi passata sul piccolo schermo.
Diversamente dall’edizione uscita in dvd nel 2003, la copia presentata ora nelle sale – oltre ai ventisei minuti inediti e mantenuti in lingua inglese con sottotitoli italiani – ripristina il doppiaggio originale della versione italiana del 1984, restituendo ad esempio, per la gioia dei fan più accaniti, al personaggio di David “Noodles” Aaronson l’indimenticabile timbro di Ferruccio Amendola, a quel tempo usuale voce italiana (anche) di Robert De Niro. Tra le più importanti sequenze reintegrate ci sono: una coda alla scena del mausoleo a Riverdale che vede comparire la direttrice del cimitero; una migliore descrizione dell’inizio della relazione tra il Noodles del 1933 ed Eve, la donna con la quale il gangster tenta di chiudere definitivamente con il ricordo del vero amore di tutta la sua vita, Deborah; una scena a teatro in cui il Noodles del 1968 osserva quest’ultima recitare sul palco la Cleopatra shakespeariana e il duro confronto tra il senatore Bailey e il presidente del sindacato trasporti Conway O’Donnell prima che nello studio faccia il suo ingresso il vecchio compagno di gioventù.
Chi scrive ammette di non potersi considerare un leoniano di ferro: ad esempio, i suoi western – pur anticipando genialmente elementi di tanto cinema contemporaneo – purtroppo non reggono, in termini di personale preferenza, il confronto con quelli di Sam Peckinpah. Eppure non può non riconoscere come il vedere squadernato per la prima volta sul grande schermo il “sogno” lungo una vita di un uomo che durante la strada ha perso il grande amico della propria adolescenza e il grande amore del proprio cuore – il cui volto mai pare voler realmente invecchiare, attraversando i suoi pensieri a partire da quel beffardo sorriso che chiude (e apre) questa grande opera della postmodernità cinematografica – abbia il sapore di qualcosa di davvero unico e personale, un gusto amaro e malinconico ma insieme grandioso e veritiero. In molti citano l’ultima inquadratura del film, caratterizzata da quello che è stato definito il sorriso più bello della storia del cinema, cercando di scioglierne una volta per tutte l’enigma.
Il maestro stesso di quella visione nella sua ultima intervista si è chiesto «[c]ome si fa a spiegare il sorriso della Gioconda? Ho voluto che il film finisse in un modo del tutto aperto, e che ogni spettatore potesse interpretarlo secondo la sua sensibilità. C’era una volta in America può essere un flashback, e quindi una storia che Noodles ormai vecchio ricorda al momento in cui torna sui luoghi della sua giovinezza. Ma può anche darsi che Noodles non sia mai uscito dalla fumeria d’oppio (una droga che annulla la memoria e proietta nel futuro), e che il film sia perciò il sogno di un drogato. Quel sorriso è un sigillo a questa ambiguità».
Al contrario noi invece è da anni che ci saziamo del contenuto del “vero” controcampo contemplato da quell’unico sguardo – dei tantissimi che si vedono lungo la pellicola – lanciato da un vecchio di oltre sessant’anni al di là di un foro praticato nel muro del cesso di una topaia qualsiasi. Ecco l’uomo del cinema (cineasta o spettatore che sia) come raccontato dalla storia del cinema (il cammino dell’evoluzione di un’arte) dentro una sala di cinema (l’unico vero luogo deputato alla fruizione primaria di questo linguaggio). Ecco il motivo per cui un film di più di quattro ore non è innanzitutto questione di “poltrona comoda” ma di ben altro.
Che cosa? Qualcosa di più semplice di quanto si possa pensare: «Ti ho riportato la chiave della pendola». Ed ecco che le lancette dell’orologio possono ricominciare la loro corsa a permettere il racconto del tempo e della memoria (di noi uomini) e del Tempo e della Memoria (della Storia). “So long, Mr. Leone”.