Usciva nel Natale del 1957, in anteprima mondiale nella natia Svezia, uno dei migliori film di Ingmar Bergman, di notevole fascino visivo, che affrontava il tema della memoria personale in modo significativo e ancora attuale: Il Posto delle Fragole. Film che vinse, tra l’altro, un meritato Orso d’Oro al Festival di Berlino dell’anno seguente.

Singolare fiaba “on the road” alla ricerca del tempo perduto, il film narra di un anziano medico, il professor Isak Borg (Victor Sjostrom) che, insignito di un’onorificenza accademica alla carriera, intraprende un viaggio in auto, in compagnia della nuora Marianne (Ingrid Thulin), per raggiungere la città del suo giubileo professionale. Lungo il viaggio, i due fanno tappa presso la casa dove Borg trascorreva le vacanze estive con la numerosa famiglia, fanno visita all’anziana madre del professore, danno un passaggio a tre giovani turisti – due ragazzi e una ragazza (Bibi Anderson) – diretti in Italia, si scontrano con una coppia di coniugi in crisi.

Il professor Borg è un anziano dal carattere duro ed egoista, che lungo l’esistenza ha sacrificato gli affetti in favore della carriera, che ha barattato l’affetto sincero della cugina Sara (ancora Bibi Anderson) per un matrimonio senza amore. Il viaggio, quasi un pellegrinaggio, nei diversi luoghi memoriali e gli incontri che avvengono lungo di esso, il dialogo con la nuora in crisi con il marito – suo figlio (Gunnar Bjornstrand) anche lui medico e simile a lui nel carattere – lo inducono a un ripensamento dell’intera sua vita. Bilancio esistenziale (e viaggio) che si conclude con una sorta di catarsi, sottoforma di una riconciliazione con i fantasmi dei suoi ricordi e con gli affetti che ancora gli rimangono: il figlio e la nuora.

Visivamente straordinario, come già ricordato, il film è abilmente costruito da Bergman secondo le categorie e le metafore della memoria, e ruota attorno all’idea che la riconciliazione con la vita, quindi con noi stessi, avvenga solo al termine dell’esistenza. Il tragitto in auto del protagonista, che percorre tutto il film, ha chiare valenze simboliche: il viaggio nei luoghi, fisici, oggetto dei propri ricordi evoca la metafora di un percorso, interiore, nei luoghi veri e fittizi della propria memoria. La dimensione spazio-temporale del racconto è perciò singolare: lineare come il viaggio in auto, ma intervallata, contrappuntata da episodi onirici e mnestici dal carattere fortemente simbolico. Di conseguenza, lo stile dell’intera opera oscilla tra naturalismo, surrealismo ed espressionismo, e in tal senso il film pare perfino un piccolo compendio delle avanguardie europee degli anni Venti e Trenta.

Il sogno che apre il film, dal montaggio sconnesso in stile surrealista e fotografato in un bianco e nero molto contrastato, è l’episodio che induce il professor Borg a preferire l’auto all’aeroplano per l’imminente viaggio, fatto che gli permetterà di toccare i diversi luoghi memoriali del tragitto. In esso è contenuto tutto lo sviluppo simbolico successivo del film, esso rappresenta quasi il suo manifesto poetico. Il professor Borg, infatti, sogna se stesso smarrirsi durante la quotidiana passeggiata e ritrovarsi in una strada sconosciuta, dove scorge un orologio a muro senza lancette e una persona senza volto, dove arriva un carro funebre trainato da due cavalli ma senza cocchiere, che si incaglia in un paracarro lasciando cadere a terra la bara contenente un altro professor Borg, il quale afferra la mano del primo e tenta di trascinarlo con sé, giù nella bara stessa.

In questo incubo troviamo, in prima lettura, la metafora della morte come trasformazione, come cammino verso la riconciliazione finale, idea cristiana metabolizzata da molta dalla tradizione teatrale nordica, che percorre svariati testi di diverse epoche, generi e autori, giù giù fino ad arrivare, addirittura, alle liriche di musicisti irlandesi contemporanei (“If I want to live, I’ve got to die to myself someday”, verso finale di Surrender, dall’album War, U2 © 1983).

Vi troviamo, inoltre, l’immagine di un grande orologio senza lancette, che sembra introdurre l’idea di circolarità e di fluidità del tempo, tipica del surrealismo; di un tempo liquido e malleabile, come nel dipinto La Persistenza della Memoria (Salvador Dalì, 1931). Simile orologio senza lancette, ma piccolo da tasca, lo rivedremo poi nella scena, reale, della visita all’anziana madre. Come a dirci che il tempo simultaneo – ciclico – ha fatto della madre, di lui e del figlio medico gli stessi insensibili egoisti, elemento di cui Borg prende gradualmente coscienza lungo il suo viaggio catartico. Inoltre, sognando il doppio di sé che cerca di trascinarlo giù in una bara, Borg inizia una simbolica lotta con i suoi ricordi spiacevoli, creduti sepolti, che invece riemergono e lo costringono al confronto con se stesso, cosa che infatti avviene durante il viaggio.

Il carro funebre del sogno iniziale è anche una citazione de Il Carretto Fantasma (V. Sjostrom, 1921), il più celebre film svedese di quegli anni, fiaba naturalista e fantastica dalle numerose trovate sceniche originali, più volte riprese in seguito (anche da W. Wenders per Il Cielo Sopra Berlino, 1987), oltre che un sentito omaggio a Victor Sjostrom, maggiore regista scandinavo degli anni del muto e protagonista, quarant’anni anni dopo, del bergmaniano “posto delle fragole”. Luogo, quest’ultimo, simbolo di un tempo perduto ma struggente, di un ricordo di felicità ora irraggiungibile, di una memoria vivida più di qualunque tempo presente.

Con questo omaggio, Bergman intende anche esplicitare il proprio debito autoriale, presente un po’ in tutta la sua opera, al cinema nordico del paesaggio, del rapporto tra questo e il volto umano; della costruzione, sulla loro interazione, di una drammaturgia intensa e spiritualmente profonda, in buona parte derivata dalla tradizione teatrale di maestri come Ibsen e Strindberg.

Infine, il film presenta entrambe le metafore della memoria prevalenti nella letteratura: quella del viaggio fisico come metafora di quello interiore, e quella delle architetture abitate da oggetti memoriali, cioè le architetture come luoghi fisici simbolo del cervello umano, luogo dove abitano le memorie. Infatti, la meta principale di questo viaggio è la casa delle vacanze, dove nel giardino, presso l’amato posto delle fragole, il professor Borg comincia a ricordare i tempi andati dicendo: “La realtà si dissolse lasciando il posto alle immagini ancora vivide della memoria”.

Il regista, allora solo trentanovenne, era già un autore in grado di fare film così intensi e profondi. Con Il Posto delle Fragole, oltre alla metafora del viaggio come bilancio dell’esistenza, Bergman mette in campo una celebrazione dell’essenza del cinema, mezzo estetico ed espressivo che permette di unificare diverse dimensioni temporali e semantiche, qui addirittura utilizzato dal grande regista svedese come schermo della memoria e del pensiero. Cinema dell’assoluto, da rivedere.