Ha compiuto in questi giorni cinquant’anni il triangolo amoroso, o mènage à trois che dir si voglia, più celebre della storia del cinema. Jules et Jim, quarto lungometraggio di Francois Truffaut, uscì infatti a Parigi il 24 gennaio del 1962, riscuotendo ammirati consensi misti a fervido sdegno, tanto che varie associazioni di benpensanti ne chiesero il ritiro dalle sale per presunto oltraggio. In Italia rischiò addirittura di non essere distribuito: ci arrivò con mesi di ritardo solo grazie all’intervento di Rossellini e del produttore Dino De Laurentiis.
Tratto dall’omonimo romanzo d’esordio (1953) del settantaseienne Henri-Pierre Rochè, che morirà prima dell’uscita film dopo aver intrattenuto con Truffaut un intenso epistolario, il film narra il lieve scorrere della vita e dell’amicizia di due uomini, il francese Jim e l’austriaco Jules, e della donna amata da entrambi, Catherine, negli anni prima, durante e dopo la Grande guerra. La vicenda ha inizio nel 1912. Jules (Oskar Werner) e Jim (Henri Serre), studenti, vivono insieme nel quartiere Montparnasse di Parigi, uniti da amicizia e amore comune per la letteratura e le donne. Di loro si innamora Catherine (Jeanne Moreau), giovane donna di spirito libero, affascinante e gioiosa, ricambiata inizialmente, così pare, solo da Jules. Infatti, i due si sposano e si trasferiscono in Austria, dove avranno anche una figlia.
Poi i tragici eventi della prima guerra mondiale separano Jim dalla coppia, che ritrova solo alcuni anni dopo nel mezzo di una crisi matrimoniale. Jim diventa allora l’amante in casa di Catherine, cosa che stranamente rinsalda l’amicizia tra i due uomini. Ma questo nuovo amore ha vita breve e sfortunata, diventando fonte di dissapori e tenere infelicità, fino alla tragica conclusione voluta dal suicidio di Catherine, anima inquieta alla perenne ricerca dell’amore perfetto.
Struggente canto di libertà e anticonformismo, raccontato da Truffaut con originalità, misura e leggerezza forse mai eguagliate nel resto della sua carriera, il film si fonda sulla dialettica contrapposizione tra norma e trasgressione, sia nel contenuto narrativo e tematico, che nella forma espressiva. Truffaut è il poeta della nouvelle vague, e in questo film lo si vede più che altrove. Per lui l’atto del narrare diviene più importante della materia stessa del narrato. Laddove Godard sconvolge la narrazione e i suoi canoni, Truffaut la ripropone secondo prospettive nuove, concedendo al sovvertimento del linguaggio classico solo una lieve, saltuaria frammentazione del montaggio e alcuni fermo-immagine, tutti emblematicamente sul dolcissimo volto di Catherine. Così la coscienza, dolorosa in altri film, che non sempre è possibile capire i personaggi e i loro comportamenti, si fa dolce in Jules et Jim, quasi sublime, aerea.
Nella versione originale la voce over del narratore è quella dello stesso Truffaut, la quale, come ha argutamente scritto qualcuno, “ha il suono di un vento leggero che fa scomparire un mondo per farne posto a un altro”. Nel film, il mondo che scompare è quello della belle epoque, che lascia il posto a guerra e restaurazione; mentre con un autore come Truffaut il mondo che va scomparendo è quello del cinema classico, mirabile epoca d’oro della settima arte arrivata però, allora, al suo capolinea. La leggera bellezza di questo film offre infatti l’occasione per ricordare come, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, si affermi definitivamente il cinema moderno, inteso come abbandono dell’illusione di realtà, tipica del classico, in favore di un modo nuovo di guardare e raccontare, che contenga in sé anche l’esplicita consapevolezza che il cinema è soprattutto un linguaggio.
Le migliori opere di Jean Vigo (L’Atalante, 1934) e di Jean Renoir (La Regola del Gioco, 1939) in Europa, di Orson Welles (Quarto Potere, 1941) negli Usa, e dei fautori del neorealismo italiano anticipano la modernità del cinema, ne preparano il terreno culturale e ne mettono a punto gli strumenti estetici; ma la rivoluzione si compie consapevolmente appieno solo con l’arrivo della nouvelle vague. “Il cinema è il cinema (…), non è una immagine giusta, ma giusto un’immagine” diceva Jean-Luc Godard, fondatore del movimento insieme ai suoi primi adepti Erich Rohmer, Jacques Rivette, Claude Chabrol e, ovviamente, Truffaut. La nuova ondata francese sovverte e liberalizza il linguaggio cinematografico.
Non ci sarebbero oggi i vari Tarantino, Van Sant, fratelli Cohen, fratelli Dardenne e, nel passato recente, John Cassavetes, ma anche l’apparente anarchia espositiva della new Hollywood dei vari Allen, Scorsese, Altman, Coppola, senza la rivoluzione linguistica completata dal movimento francese. A esso si deve anche l’idea contemporanea di cinema d’autore e la rivalutazione in chiave di “modernità dello sguardo” di alcuni grandi maestri del classico, soprattutto Sua Maestà sir. Alfred Hitchcock, ma anche gli insospettabili “artigiani” della narrazione trasparente John Ford, Howard Hawks, George Cukor, nonché di alcuni intensi premoderni come Nicholas Ray (Gioventù Bruciata, 1955) ed Elia Kazan (Fronte del Porto, 1954).
Quindi al tempo di Jules et Jim il cinema è già diventato il cinema. La sovversione che lo ha portato dall’abbandono delle forme mimetiche classiche all’affermazione della pluralità di senso come sua cifra estetica primaria, nel moderno, è compiuta. Per coglierne sinteticamente il senso può anche bastare poco. Viene giusto in mente una simpatica storiella riguardo il pittore del Novecento, tale Pablo Picasso. Pare infatti che egli, criticato da un signore che gli mostrò la foto della moglie come esempio di arte realistica, abbia questi apostrofato dicendo: “Allora vostra moglie è alta cinque centimetri, bidimensionale, senza braccia né gambe, e senza colori tranne sfumature di grigio?”.