“Eroberung des Nutzlosen”, “conquista dell’inutile, del vano, dell’inefficace, dell’infruttuoso”. A quanti verrebbe in mente di dare una qualifica del genere alle fitte pagine grondanti fatiche, disagi, incomprensioni, “visioni”, fascino e poesia che raccontino di un’epica e travagliata impresa che abbia occupato non meno di due anni e mezzo della propria vita, il tutto verso la soglia dei quarant’anni? Eppure… Eppure questo è il titolo originale sotto il quale nel 2004 – a venticinque anni di distanza dall’inizio dei fatti narrati – vennero raccolti e pubblicati i diari redatti dal regista tedesco Werner Herzog (1942) nell’Amazzonia peruviana durante la lavorazione del film Fitzcarraldo, tra il giugno 1979 e il novembre 1981.
Una pellicola alla quale trent’anni fa la Giuria della 35ª edizione del “Festival International du Film” di Cannes – presieduta da Giorgio Strehler e formata, tra gli altri, da Gabriel García Márquez, Sidney Lumet, Jean-Jacques Annaud, Geraldine Chaplin e Suso Cecchi d’Amico – assegnò il premio per la migliore regia. Un riconoscimento per il materializzarsi di un sogno (nella realtà e in celluloide) al suo intrepido ed ostinato autore, accompagnato dalla fama di figura “prometeica” del grande schermo perfettamente speculare a quel Brian Sweeney Fitzgerald detto Fitzcarraldo di cui ci parlano i 150 minuti dell’opera, in cui il protagonista ha l’aspetto biondo e biancovestito di Klaus Kinski (1926-1991), all’epoca – per restare alle regie dello stesso Herzog – già memorabile Lope de Aguirre in Aguirre, furore di Dio (Aguirre, der Zorn Gottes, 1972) ed intenso Woyzeck (1978) nel film tratto dall’omonimo dramma di Georg Büchner.
quale sia questo sogno è messo immediatamente in luce con precisa e folgorante evidenza nel “prologo” del diario: «Come la folle rabbia di un cane, che si ostina ad azzannare la zampa di un capriolo ormai morto e insiste a scuotere e a tirare con forza la selvaggina abbattuta, al punto che il cacciatore rinuncia a ogni tentativo di calmarlo, una visione si era radicata dentro di me: l’immagine di un grande battello a vapore su una montagna – la barca che si trascina tra i fumi grazie alla sua stessa forza, risalendo un ripido pendio nel cuore della giungla e, in mezzo a una natura che annienta senza distinzione i deboli e i forti, la voce di Caruso, che riduce al silenzio il dolore e il clamore degli animali nella foresta amazzonica e smorza il canto degli uccelli».
Visione, barca, fumi, giungla, natura, animali, uccelli. A cosa o a chi mai può condurre fin da subito un simile incipit? A Francis Ford Coppola. Infatti le primissime date riportate sono quelle in cui il regista tedesco è ospite nella casa di San Francisco del suo illustre collega statunitense, a sua volta freschissimo reduce dal più gigantesco sforzo creativo e produttivo della sua carriera, quell’Apocalypse Now che lo aveva visto dapprima impegnato tra mille difficoltà già dal 1976 sui vari set allestiti nelle Filippine e poi premiato nel maggio 1979 con la Palma d’Oro per il miglior film al 32º Festival di Cannes.

Eppure… Eppure – parlando dei contatti con dirigenti e produttori delle case cinematografiche per Fitzcarraldo – Herzog è Herzog, come bene dimostra la seguente annotazione di quel medesimo periodo: «Fra l’altro qui considerano ovvio e scontato trainare una riproduzione in plastica della nave su una collina in studio, forse addirittura in un giardino botanico, purché non sia lontano […] e ho detto che io considero ovvio e scontato che si lavori con una nave vera su una collina vera, e non per amore di realismo, ma per la stilizzazione di un grande evento dell’opera lirica. Da quel momento, sulle cortesie che ci siamo scambiati è calato un velo sottile di gelida brina». Ecco quindi perché non deve apparire fuori luogo l’ipotesi presa in considerazione dal regista, a riprese già in corso, di interpretare egli stesso il ruolo di Fitzcarraldo, dopo la notizia del definitivo forfait dell’americano Jason Robards (che lo aveva impersonato fino a quel momento) e prima di coinvolgere Kinski decidendo di tornare a girare il film dal principio con altri attori.
Per poi finalmente giungere al momento decisivo in cui la visione che si era radicata in lui trova effettivo riscontro nella realtà, finendo impressa su pellicola anche grazie al lavoro del fidato direttore della fotografia Thomas Mauch: «Una nave a vapore che a tutto vapore sale su una montagna è una cosa che nella realtà non può accadere. C’è qualcosa di speciale in questo. Ho sempre saputo che era una metafora centrale di questo film, forse anche della vita. Non so nemmeno dire metafora di cosa, non so dargli un nome, ma c’è qualcosa di importante in questo. È un sogno e lo si sta realizzando. Questo film cerca sempre di darti coraggio: “Fai un sogno, realizzalo, non aver paura, fallo a tutti i costi, ne sei capace, come debole essere umano sei in grado di fare cose come questa; è la fede che muove le montagne”».
In questi termini Herzog esprime nel commento all’edizione in DVD del film la «fede quasi religiosa» (la definizione è sua) che lo aveva animato durante la sua lunghissima lavorazione. E le pagine del diario cosa riportano di quel fatidico giorno che ne rappresenta anche la loro conclusione? Una constatazione che molti, arrivati a questo punto, potrebbero faticare a capire: «La nave mi era indifferente. […] Non c’era dolore né gioia, non c’era agitazione né rilassamento, non c’era felicità né un suono, non c’era nemmeno un respiro di sollievo. Era soltanto il fatto di capire una grande inutilità, o, più precisamente: io ero solo penetrato più profondamente nel suo misterioso regno. […] Oggi, mercoledì 4 novembre 1981, poco dopo mezzogiorno, siamo riusciti a portare la nave dal Río Camisea al Río Urubamba facendole valicare una montagna. Tutto quello che c’è da dire è questo: io vi ho preso parte».
Eppure… Eppure quando si parla di cinema, anche partendo dall’opera del “folle” Werner Herzog, niente ci appare così indispensabile come questa “inutilità” e la sua preziosa “conquista”, «l’immagine del fantasma inafferrabile della vita; […] la chiave di tutto», come ne scrisse Herman Melville nel primo capitolo del suo Moby Dick.