Ha da poco compiuto ottant’anni il film Vampyr (Il Vampiro) di Carl Theodor Dreyer, giusta occasione per ricordare la figura del regista danese, scomparso settantanovenne nel 1968, che a causa dell’estremismo della sua ricerca artistica e alla nomea di autore geniale, ma dispendioso, realizzò poche importanti opere, tutte autentiche pietre miliari del cammino che la settima arte ha percorso dalle avanguardie europee degli anni Venti fino alla modernità degli anni Sessanta.
Presentato ufficialmente al pubblico il 6 maggio 1932 all’Ufa Theater di Berlino, locale di proprietà della stessa casa produttrice del capolavoro di Fritz Lang Metropolis (1927), la principale nella Germania dell’epoca espressionista, il Vampyr di Dreyer rappresenta un caso particolare, quasi isolato nella storia del cinema. Un film difficilmente inquadrabile in un solo genere codificato, che viaggia a cavallo tra espressionismo poetico e horror fantastico. Un affascinante labirinto onirico, attraversato dall’incedere fluido e senza meta del protagonista David Gray.
Tratto liberamente dalle novelle orrorifiche Carmilla, The Room in the Dragon Volant, The Familiar e Mr. Justice Harbottle di Joseph Sheridan Le Fanu, tutte raccolte nel volume In the Glass Darkly (Dublino, 1872), questo singolare film di vampirismo al femminile, pur venendo dopo il Nosferatu di F. W. Murnau (1922) e il Dracula di Tod Browning (1931), non ne subisce affatto l’influenza stilistica, e anzi se ne discosta in modo netto. Infatti, in Vampyr le atmosfere, i meccanismi estetici propri dei film horror dell’epoca sono sovvertiti, ribaltati da Dreyer con intelligenza. Prevale l’ambientazione in luoghi aperti e alla luce del giorno e, nella composizione delle inquadrature, una sapiente gamma di grigi sostituisce il netto contrasto tra il bianco e il nero.
Vampyr è anche un film di avanguardia sperimentale, realizzato grazie al sostegno finanziario del barone olandese Nicolas de Gunzburg che, con lo pseudonimo di Julian West, interpreta la parte di David Gray. Questi è protagonista di una sinistra vicenda quando, trovandosi di passaggio in un luogo strano perso chissà dove, si ferma per la notte in una misteriosa locanda. Qui apprende da un vecchio libro la vicenda di una vampira, che da molto tempo infesta il piccolo paese. Aiutata da un sedicente medico e da due servi, la vampira insidia le due giovani figlie di un castellano, debilitate dai continui salassi. Dopo varie vicende il giovane David Gray, alla fine di un vivido incubo in cui vede se stesso chiuso in una bara e sepolto, riesce a uccidere la vampira e a seppellire l’occhialuto medico sotto la farina di un vecchio mulino.
Girato nell’estate del 1931 in un villaggio della Francia settentrionale, in ambienti reali e con attori – quasi tutti – non professionisti, il Vampyr del grande regista danese ebbe uno scarsissimo riscontro di pubblico, tanto che Dreyer non riuscì a farsi produrre altri film per i successivi undici anni, fino all’uscita del capolavoro Dies Irae nel 1943. Cionondimeno questo film visto oggi, anche se in versioni modificate rispetto a quella filologica del montaggio originale – andata perduta – stupisce per le invenzioni visive e l’elegante genialità della messa in scena. È da antologia del cinema, in senso assoluto, la sequenza dell’incubo, quando David Gray sdraiato nella sua bara vede in soggettiva due falegnami inchiodarvi sopra il coperchio, e poi, da uno spioncino attraverso il coperchio della bara, la medesima soggettiva ci mostra il cielo solcato da neri e sinistri rami d’albero. Scena tremenda e bellissima, che testimonia la maestria di Dreyer nel rendere palpabile la fobia del sepolto vivo.
Nel panorama della rigorosa opera dreyeriana, Vampyr si caratterizza per la singolarità e la lungimiranza delle scelte stilistiche, in buona parte di taglio sperimentale, come già ricordato, dettate anche dalle difficoltà seguite all’insuccesso al botteghino (ma non di critica) del precedente La Passione di Giovanna d’Arco (1928). In particolare, come accennato, sono le mirate scelte estetiche di fotografia e di sonoro a rendere il film così fascinoso. Infatti, la vicenda di David Gray, questo suo singolare itinerario attraverso l’esperienza del mistero, dipanandosi in una dimensione temporale estranea all’alternanza del giorno e della notte (cioè alla dicotomia bianco/nero della fotografia), viene visivamente collocata dal regista in una sorta di crepuscolo, ben catturato dal tono flou della pellicola e dalla gamma di grigi che caratterizza il film.
Inoltre, Dreyer, utilizzando al meglio le nuove possibilità espressive e connotative del sonoro, introdotto da poco, ridice al minimo i dialoghi e incrementa l’efficacia evocatrice di suoni e rumori, inserendoli numerosi in tutto il film come precisi e ossessivi segnali di eventi malefici, facendoli elementi funzionali, in connessione dialettica con musica e silenzi, al meccanismo di suspense del racconto. L’intero film risulta così immerso in una sorta di limbo onirico, ricco di fascino straniante, di suggestioni e presenze dell’ignoto.
Nell’incedere narrativo della vicenda, il protagonista attraversa un paesaggio misterioso e oscuro, con luoghi, volti, ombre, suoni, rumori e voci incomprensibili, lontani e indecifrabili. Il film diventa allora, in una lettura più ampia, una sorta di riflessione sul mistero e sull’ignoto che circonda le umane vicissitudini. Le numerose scene a cavallo tra reale, onirico e surreale, volutamente connotate in modo così ambiguo, conferiscono al film un’incertezza assoluta: alla fine non capiamo se abbiamo visto qualcosa o non abbiamo visto nulla.
Tutta l’avventura di David Gray è passata in lontananza (prevalenza di campi lunghi) perché tutto è già successo, nel territorio fantastico e remoto del (nostro) inconscio. Con questo singolare horror, dominato dal fantastique, pervaso da fascino impalpabile, indeterminato, Carl Th. Dreyer riesce nella quasi impossibile impresa di fare, a tratti, del cinema metafisico, riuscendo a filmare l’invisibile, a rendere l’invisibile visibile sullo schermo. Miracolo della settima atre che solo i maestri possono compiere.