Una pellicola che fu subito salutata come un classico dal momento stesso del suo primo apparire dieci anni fa sulla Croisette nell’ambito della 55ª edizione del Festival di Cannes, al termine della quale le fu assegnato il massimo riconoscimento per un’opera in concorso, la Palma d’oro per il miglior film: in un’ideale rassegna cinematografica che volesse proporre i titoli più significativi che hanno cercato di ricapitolare per immagini ciò che è stato il XX secolo, seguendo il dipanarsi di quella sottile linea che passa attraverso il cuore di ogni singolo uomo e dando quindi spazio alle storie di testimoni, uomini e donne che hanno percepito e vissuto fino in fondo all’interno della propria esperienza un punto di verità nel contesto di circostanze storiche definite e documentate, ebbene in questa ipotetica galleria in celluloide del Novecento non potrebbe di certo mancare Il pianista (The Pianist, 2002), nel quale il regista di origini polacche Roman Polanski (1933) affronta uno dei “buchi neri” della Storia recente, un gorgo che lo ha lambito in giovane età inghiottendo parte delle persone a lui care (ebrei nella Polonia occupata dai nazisti, tutta la sua famiglia venne rinchiusa in un ghetto: rivide il padre solo molti anni dopo la propria fuga da Varsavia all’età di sette anni, mentre nel 1941 la madre venne deportata e uccisa ad Auschwitz).

Avendo l’autore ripercorso e fatta propria la vicenda autobiografica di Wladyslaw Szpilman (1911-2000), il pianista la cui personale odissea è al centro del film, non si può che concordare con la sintetica descrizione data dal suo attore protagonista Adrien Brody, che ha definito Polanski «un sopravvissuto che racconta la storia di un sopravvissuto». Ricorda infatti il regista nel documentario A Story of Survival. Behind the Scenes of THE PIANIST: «Sono stato salvato dalla Umschlagplatz. È quell’area in cui i tedeschi erano soliti raccogliere un gran numero di persone prima di metterle nei treni che partivano per i campi di sterminio. Un giorno che stavo andando in cerca di mio padre, sono giunto dove c’era una folla di ebrei. Di fatto stavo camminando dentro l’inferno. Quella era la Umschlagplatz, con migliaia di persone, alcune di loro stese lì da 24 ore o più, altri stavano morendo, altri piangendo, altri girando senza meta, altri urlando, altri solo completamente prostrati in preghiera. Ho deciso di uscire da quel posto. Era custodito da giovani ufficiali polacchi che indossavano l’uniforme tedesca. Non so esattamente chi fossero. Li chiamavano “Baudienst”. Avevo trovato un ragazzino, più giovane di me, a cui prima avevano portato via i genitori. Io e mio padre avevamo deciso di occuparci di lui. Siamo andati al bordo della piazza. Era una giornata molto soleggiata. C’era una strada larga circa 10 metri e quel tizio, quella guardia con la carabina. Le ho chiesto di lasciarci… Le ho detto che non avevamo mangiato niente da parecchio… da 24 ore… che andavamo soltanto a casa a prendere un po’ di pane e che saremmo subito tornati. Il tizio ci guardò e disse: “Andate!” Ho afferrato quel ragazzino – Stefan era il suo nome – e ho cominciato a correre. Disse: “Non correre!”. Abbiamo passato la porta. Conoscevo vari passaggi che conducevano a cortili dove era tutto sottosopra. Gran parte delle case erano state completamente svuotate ed era pieno di cose dappertutto: piume, piume… guanciali, solo cose buttate giù dalle finestre e nessuno, il deserto… Questo ricordo mi ha ispirato la lunga camminata che c’è nel film dopo la deportazione. Questo tizio mi ha salvato la vita. Dovevo utilizzare: “Non correre!”».

Già nelle primissime inquadrature del film lo spettatore è avvinto da un’armonia che non vuole saperne di tacere, di arrendersi davanti alle bombe naziste che cadono su Varsavia nel settembre 1939. Con questa valenza la musica riappare nell’esperienza di Szpilman anche durante i successivi, drammatici, lunghi cinque anni di “martirio” suo e della sua amata città: i 140 minuti dell’opera sono infatti contrappuntati dalle note di Fryderyk Chopin (Notturno in do minore, postumo; Grande Polacca brillante, op. 22 – Allegro molto; Ballata in sol minore n. 1 op. 23), Johann Sebastian Bach (Suite per violoncello solo n. 1 in sol maggiore, BWV 1007) e Ludwig van Beethoven (Sonata n. 14 in do minore, op. 27/2, “Al chiaro di luna”).

E da subito si avverte che questa armonia non sta solo in se stessa, non è presente unicamente quale elemento diegetico in quanto si parla di un pianista: quelle note per pianoforte di Chopin – per forza di cose molto spesso puramente immaginate dal protagonista – appaiono al fondo come un promemoria della stessa natura della nota ribattuta (la celebre “goccia”) del Preludio op. 28 n. 15 del medesimo autore, un filo rosso che tesse e tiene insieme sia quei cinque tragici anni che lo stesso Szpilman, un richiamo a qualcosa di irriducibile e indistruttibile che si chiama Vita e rappresenta il vero, complesso, misterioso fuoco che sprigiona dalla legna fatta ardere sul grande schermo dal sopravvissuto Polanski.

Ecco perché assume un valore tutto particolare una frase all’apparenza quasi banale espressa dal regista in chiusura del già citato documentario dedicato al dietro le quinte del film: «Chiunque è capace di qualunque cosa in un dato momento della Storia». Il che non vale solo per il personaggio di Szpilman, ma anche per tutte quelle figure provvidenziali che il protagonista incontra lungo la propria “Via Crucis”, un flusso di umanità dentro un vortice in cui tutto sembra destinato a scomparire che lo conduce fino al capitano della Wehrmacht Wim Hosenfeld, che gli dà riparo e cibo durante gli ultimi scampoli dell’occupazione nazista di Varsavia.

Si tenga presente che nella prima versione dell’autobiografia di Szpilman (Morte di una città, 1946) il militare non compariva come tedesco, bensì come austriaco, in quanto il pubblico mai avrebbe accettato che un nazista potesse essere un brav’uomo: e invece eccole lì, tra un fotogramma a colori e l’altro, la Vita e quelle linee invisibili eppure presenti che passano attraverso il cuore dell’uomo e costituiscono la vera, consistente “trama” non solo di ciò che vediamo, ma di quel che c’è.