L’ossessione. Il controllo. L’ossessione del controllo. Il controllo dell’ossessione. Questi sono da sempre considerati – e non solo per la sua proverbiale meticolosità come regista – la vera summa dei temi affrontati dalle e nelle non molte opere per il grande schermo firmate da Stanley Kubrick (1928-1999). La penultima occasione di poter vedere esercitate e mostrate queste due parole chiave del suo cinema ci è stata offerta a suo tempo dai 108 minuti del caustico war movie che compie proprio in questi giorni il quarto di secolo: venticinque anni fa, tra il 17 (giorno dell’anteprima a Beverly Hills) e il 26 giugno 1987, usciva infatti nelle sale cinematografiche statunitensi Full Metal Jacket.
Un film basato sul racconto Nato per uccidere (The Short-Timers) di Gustav Hasford, che ha lavorato anche alla sceneggiatura insieme allo stesso regista e allo scrittore Michael Herr, con un titolo desunto dalle cartucce a palla blindata calibro 7,62 in uso nell’esercito, ambientato dapprima in un campo di addestramento dei Marines, vera e propria fabbrica di professionisti della morte, e successivamente nel Vietnam tagliato in due dall’offensiva del Tet, per poi arrivare alla sequenza conclusiva, una tra le più potenti di questa pellicola e del cinema di Kubrick, quasi a dare un’ultima, definitiva concretezza audiovisiva a un adagio vietnamita («Cammino nella valle della Morte, ma non ho paura del Demonio, perché sono il Demonio»): quella in cui il soldato che lo spettatore ha imparato a conoscere solo come “Joker” (Matthew Modine), in compagnia dei suoi commilitoni, marcia nella notte illuminata dalle fiamme degli incendi divampati in edifici ormai ridotti a cumuli di macerie cantando la Mickey Mouse Club Song («We play fair and we work hard / And we’re in harmony / M-I-C-K-E-Y M-O-U-S-E / Forever let us hold our banner high / Boys and girls from far and near / You’re welcome as can be / M-I-C-K-E-Y M-O-U-S-E / Who’s the leader of the club / That’s made for you and me? / M-I-C-K-E-Y M-O-U-S-E») e intercalandola con una devastante presa di coscienza finale («Sono così contento di essere vivo, tutto d’un pezzo e prossimo al congedo. Vivo in un mondo di merda, certo. Ma sono vivo e non ho paura»).
Trent’anni esatti separavano queste immagini da quelle che quasi specularmente avevano chiuso un altro capolavoro dello stesso autore, Orizzonti di gloria (Paths of Glory, 1957), in cui il colonnello Dax (Kirk Douglas) – “reduce” dallo spettacolo di smisurato cinismo offerto dai propri superiori e prima dell’immediato rientro al fronte franco-tedesco del 1916 con il suo reggimento – chiedeva al proprio sottoposto di lasciare ancora qualche minuto ai soldati che si erano commossi al canto in tedesco di una spaurita giovane in lacrime, da tutti schernita fino a pochissimi istanti prima come una nemica, una preda di guerra («Ein ganzes Jahr und noch viel mehr / Die Liebe nahm kein Ende mehr / Und als man ihm die Botschaft bracht’ / Dass sein Herzliebchen im Sterben lag / Da liess er all sein Hab und Gut / Und eilte seinem Herzliebchen zu / Ach bitte Mutter bring ein Licht / Mein Liebchen stirbt – ich seh es nicht / Das war fürwahr ein treuer Husar / Der liebt’ sein Mädchen ein ganzes Jahr»).
Due sequenze in un lasso di tempo che sembra avere lasciato decisamente il segno nella personalissima riflessione del regista sul mondo e che si possono accostare – come distanza antropologica espressa – al divario esistente tra il Ritratto di Innocenzo X (1650) di Diego Velázquez e il Papa III di Francis Bacon (1951). Come se nel corso degli anni l’ossessione e il controllo si fossero applicati ed espressi in pellicole che emanavano sempre più esplicitamente una fredda atmosfera da studio sociologico, un asettico clima da laboratorio.
Le cronache tramandano che gli imperatori d’Oriente – cioè coloro che si consideravano da sempre gli unici, autentici eredi della tradizione romana – erano soliti sorprendere gli ospiti e gli ambasciatori stranieri in visita alla corte di Bisanzio – la città che il poeta irlandese William Butler Yeats definì nel suo Sailing to Byzantium (1926) il luogo dei «monumenti dell’intelletto che non invecchia» di contro al mondo concreto e quotidiano della propria terra natale (il famoso verso «Quello non è un paese per vecchi») – mostrando loro la collezione di automi in oro che si potevano animare grazie ad un sistema di pompe idrauliche. Ebbene, osservare nelle ultime e sempre meno frequenti pellicole licenziate dal regista i vari attori di volta in volta coinvolti e impegnati in una sfida al limite delle proprie capacità interpretative di fronte alla sua esigentissima macchina da presa sembra quasi restituire allo spettatore lo stesso “spaesamento” di quegli ospiti alla corte della capitale dell’Impero Romano d’Oriente insieme alla medesima “meraviglia” per quegli automi.
Kubrick era conosciuto per essere un autore che non amava troppo gli attori: fermo e cortese durante la fase delle riprese sul set, ma con l’idea che il film in lavorazione era fondamentalmente qualcosa di suo. Ai vari interpreti era semplicemente chiesto di entrare senza troppi scossoni in quel delicato meccanismo che lui stesso si era costruito in anni e anni di letture, contatti, visioni, ragionamenti, commenti, lotte interiori, alla stregua di pedine che andavano sistemate al posto giusto nel tempo di una estenuante e necessaria serie di ciak sul set e di un successivo e laborioso lavoro in sala di montaggio: Frederic Raphael, lo sceneggiatore di Eyes Wide Shut (1999), ha ricordato che Kubrick «[n]on ha mai avuto intenzione di fornire grandi opportunità agli attori e tanto meno affidarsi a loro per dare alle scene un senso supplementare. Era ben conscio dei pericoli derivanti dal riempirgli la bocca di parole». L’ultimo imperatore romano del cinema, il Napoleone della settima arte.