Usciva trent’anni fa negli Stati Uniti (25 giugno 1982) uno spettacolare film di fantascienza destinato a immediata fama planetaria, un cult divenuto simbolo del labile confine che segna il passaggio dalla modernità alla post-modernità della settima arte: Blade Runner di Ridley Scott. Liberamente tratto dal romanzo Il Cacciatore di Androidi (Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968) di Philip K. Dick, considerato a giusta ragione uno degli autori americani – non solo di genere – più importanti del secondo Novecento, il film di Scott ne semplifica l’ampio intreccio a vantaggio di un impianto narrativo compatto, maggiormente adatto al suo (del film) armamentario visivo.

A essere soppressi sono i passaggi con chiare implicazioni morali e religiose, troppo ramificate per un film, oltre a quelli in cui gli animali meccanici prendono il posto di quelli veri estinti. Operazione che ebbe il completo avallo ideologico dello stesso Dick che, nonostante prima della morte abbia potuto visionare solo parte del pre-montato, rimase soddisfatto del lavoro degli sceneggiatori, e dichiarò: “Il libro era costituito da circa sedici intrecci, e avrebbero dovuto girare un film di sedici ore. Sarebbe stato impossibile. Non è così che si ricava un film da un libro. Non si passa in rassegna scena per scena”.

Nella Los Angeles del 2019, inquinata, cadente, popolata da gente di tutte le razze, buia e sotto un’eterna pioggia, l’agente della squadra speciale Blade Runner Rick Deckard (Harrison Ford) deve eliminare alcuni automi dalle sembianze umane, detti “replicanti”, sfuggiti al controllo della società costruttrice Tyrell Corporation. Mentre Deckard procede alla caccia dei replicanti aiutato da Rachel (Sean Young), dipendente della Tyrell e replicante evoluta, capace di sentimenti e di ricordi, il più forte dei replicanti ribelli, Roy (Rutger Hauer), riesce a scovare il suo creatore ingegner Tyrell e, dopo avergli chiesto invano più tempo di vita, lo uccide crudelmente.

Deckard, informato dell’accaduto, intensifica la caccia tra la pioggia sporca e le case decrepite del futuro-passato della Los Angeles del film, trova Roy e lo affronta in una sorta di duello sui tetti, che ne ricorda molti simili del cinema noir classico. Alla fine Roy salva inaspettatamente la vita al suo cacciatore, recita il celebre breve monologo “I’ve seen things you people would’t belive …”, e, finito il suo tempo, spira di fronte a Deckard. Questi, ritrovata Rachel, se ne va con lei, replicante dai sentimenti umani e senza “data di scadenza”, lontano dalla città sporca verso un futuro ecologico.

Un finale vanamente consolatorio, imposto dalla produzione e quindi posticcio rispetto al resto del testo filmico, conclude così il film in sala trent’anni fa. Nella versione director’s cut, rivista da Scott secondo la sceneggiatura originale e distribuito nel 1991, la scena “ecologica” finale scompare per fare posto alla rivelazione che Deckard non è altro che un replicante inconsapevole di esserlo, nel resto del tutto simile a quelli che ha cacciato e ucciso. Torna allora perfettamente l’idea di circolarità tra verità e inganno, di contiguità tra ciò che è umano e ciò che è artificiale, meccanico, che informa il romanzo di P. K. Dick – e l’intera sua opera – ed è così ben riportata in cinema dal regista britannico.

Il film, come accennato, è forse il miglior esempio dello stile e della poetica tipiche delle opere a cavallo tra la modernità e la post-modernità del cinema. La definizione di post-moderno, o della contemporaneità del cinema, non è però del tutto univoca. Varie le forze in gioco dagli anni Ottanta in poi: da un lato la tendenza al ritorno ai film di puro intrattenimento e disimpegno, anche spettacolari e ben confezionati, ma offerti a un pubblico di consumatori sempre più omologato, i cui maggiori responsabili – nel bene e nel male – sono da considerarsi Steven Spielberg e George Lucas; dall’altro l’affermazione del citazionismo, per cui molte pellicole del cinema post-moderno hanno come oggetto, e/o referente ultimo, il cinema stesso, la sua storia ei suoi generi classici.

Se Guerre Stellari di Lucas (1977) può essere considerato il capostipite della prima delle tendenze sopra esposte, senz’altro Blade Runner è l’iniziatore del seconda. L’ampio apparato di effetti speciali, altra caratteristica peculiare del cinema post-moderno, è utilizzato da Scott poco in maniera spettacolare e attrattiva, e molto invece in simbiosi organica con la narrazione. Le molte citazioni, e la commistione dei generi tra passato e futuro (fantascienza e noir), non sono puri omaggi, ma elementi costitutivi del tessuto del film. Blade Runner diventa così una sorta di replicante di tanti altri testi filmici, che fa proprio dell’essere una copia la sua grande originalità.

Film di confine tra le due più recenti fasi della storia del cinema, si è detto, in bilico tra cinema dello sguardo e cinema degli effetti speciali. Emblematico il primissimo piano sull’occhio invaso dal riflesso delle luci dei palazzi ciclopici – a loro volta un rimando a Metropolis di Fritz Lang (1927) – che è citazione di Kubrick, del suo sguardo siderale in 2001 Odissea nello Spazio (1968), ma anche, esattamente come nello stesso Kubrick e in molti altri, la raffigurazione simbolica dell’essenza voyeuristica del cinema. Guardare quest’occhio, come ogni altro dopo quello di Odissea, è come guardare il Cinema mentre riflette su se stesso. In questo il film di Scott è ancora profondamente radicato nel moderno, e personalmente è l’aspetto che più piace. 

Curioso infine notare come lo stesso Ridley Scott stia in tempi recenti pensando a un remake del suo capolavoro. Sapendo che il post-moderno nasce anche sull’onda di tanti remake, fatti a Hollywood dai Settanta in poi come citazioni di film precedenti riformulati su tematiche contemporanee, la cosa non stupisce affatto. Il cinema, in effetti, è arte che probabilmente non finirà mai di ri-generarsi, replicando se stessa all’infinito.