Due altri interessanti titoli in programma oggi pomeriggio e questa sera presso la Sala Cinema D7 Acec per piccoli e grandi fans del grande schermo nell’ambito della 33ª edizione del Meeting di Rimini dal titolo “La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito”: alle ore 14:30 sarà la volta di Hugo Cabret (Hugo, 2011) firmato da quel grandissimo amante del cinema che risponde al nome di Martin Scorsese (70 anni il prossimo 17 novembre) e pluripremiato agli Academy Awards 2012 anche se in categorie di carattere prettamente tecnico (migliori fotografia, scenografia, effetti visivi, montaggio e missaggio sonori), mentre alle ore 21:30 toccherà a The Way Back (2010) di Peter Weir, che segna – letteralmente – “la via del ritorno” dietro la macchina da presa anche del regista australiano dopo un’assenza che ormai si prolungava dai tempi di Master & Commander – Sfida ai confini del mare (Master and Commander – The Far Side of the World, 2003).



La prima pellicola – che prende spunto e titolo dall’omonimo romanzo grafico di Brian Selznick, a quanto pare un lontano parente del famoso David O. Selznick, uno tra i più potenti produttori degli anni d’oro di Hollywood – rappresenta, pur nelle apparenze di prodotto cinematografico “per tutta la famiglia”, un esplicito e sentito omaggio da parte di Scorsese – che nel film si riserva una velocissima apparizione nei panni di un fotografo, come già nel suo memorabile L’età dell’innocenza (The Age of Innocence, 1993) – ai primi passi mossi dalla settima arte, un’epoca insieme magica e gloriosa fatta di sperimentazioni continue, sogni a occhi aperti e, soprattutto, sano stupore: «Lo vedi questo? Un’altra complicazione, un altro mistero!» «Ma ti rende felice!» «Un buco della serratura a forma di cuore… sfortunatamente non abbiamo la chiave!». Non a caso il “protagonista ombra” dell’opera – ambientata negli anni Trenta e che vede al proprio centro la vicenda di Hugo Cabret, un orfano che abita (novello Quasimodo) nel suo appartamento segreto tra i grandi orologi all’interno della stazione ferroviaria di Parigi – è quel Georges Méliès (1861-1938), illusionista, prestigiatore e proprietario del Teatro “Robert Houdin”, che, ormai in rovina da parecchio tempo e ridottosi a fare il negoziante di giocattoli, venne definito da Louis Lumière come il «creatore dello spettacolo cinematografico» in occasione del conferimento della Legione d’Onore nel 1931, essendo stato tra i primi a concepire la produzione di film in termini di creazione artistica e di lavoro di messa in scena, autentico iniziatore del cinema narrativo e inventore di tutti i trucchi/effetti speciali di tipo meccanico e ottico scenico.



Come scrive Gianni Rondolino, «Méliès per primo si dedicò con passione e precisione alla “messinscena”, cioè alla confezione dello spettacolo cinematografico secondo principi estetici e tecnici che, pur basandosi sulla tradizione del teatro di varietà, costituiranno gli schemi formali della maggior parte della successiva produzione di largo consumo, sia in Europa, sia soprattutto in America. In altre parole, i precedenti dei grandi film storici italiani o delle superproduzioni hollywoodiane – per fare due esempi – vanno ricercati nei brevi film di Méliès, vero creatore del cinema scenografico e spettacolare». La sua opera di maggior successo (e autentico fil rouge della pellicola scorsesiana, che lega alla sua storia quella del giovane Hugo) fu Voyage dans la Lune (1902), che gli valse il soprannome di “Jules Verne del cinema”.



Il secondo film in programma – come subito ci ricordano le sintetiche didascalie iniziali – vuole essere il canto elevato da Peter Weir al coraggio e alla libertà dell’uomo attraverso il racconto della tanto incredibile quanto reale impresa di otto individui (sette uomini e una donna) che nel 1940 sfidarono l’ostilità dell’ambiente naturale circostante (le foreste siberiane, le acque del lago Bajkal, l’arsura del deserto del Gobi, la neve del Tibet e le vette del Nepal) per fuggire dalla crudele oppressione del regime sovietico.

Queste le parole con cui sentiamo “accolti” i prigionieri del gulag: «Nemici del popolo! Guardatevi intorno e sappiate questo: la vostra prigione non sono le nostre armi o i cani o il filo spinato. La vostra prigione è la Siberia stessa. Tutti i suoi 13 milioni di chilometri quadrati. Il vostro carceriere è la natura e qui è senza pietà. Se la natura non vi ucciderà, lo faranno gli abitanti del posto. C’è una ricompensa per la testa di ogni fuggiasco». Un inno intonato a partire da un romanzo autobiografico uscito nel 1956 dal titolo “The Long Walk” del polacco Slawomir Rawicz (anche se la paternità dell’impresa e dei fatti narrati potrebbe forse essere di un altro reduce, una controversia che purtroppo ha fatto gridare al falso anche molta critica nostrana all’indirizzo del film) che appare volutamente improntato dal regista ad una “scandalosa” sobrietà (elemento che per contro evidenzia anche meglio alcune piccole sbavature che si incontrano lungo i 125 minuti della pellicola), che una visione superficiale potrebbe però erroneamente prendere per povertà di linguaggio o, peggio, pochezza narrativa.

Detto questo e certo grati del ritorno sul grande schermo di un’opera di Peter Weir, va comunque riconosciuto come il film ci appaia formalmente inferiore al precedente. Volendo riprendere e adattare una delle sue più belle sequenze, potremmo però rispondere ai suoi detrattori più convinti che, come il protagonista Janusz ai suoi compagni di cammino in mezzo al deserto, ci ammoniscono: «È un miraggio! È solo un miraggio!», dicendo: «Nei miraggi non ci sono uccelli. Nei miraggi non ci sono uccelli!». Questo perché le perplessità che qui e là possono anche affiorare, come è stato scritto, «non pregiudicano l’efficacia [del film]. E non gli impediscono, grazie anche all’ottimo apporto del cast, di raggiungere la meta di ogni ritorno: il cuore».

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