Con la giornata di oggi si giunge all’ultimo appuntamento con il grande cinema proposto ai visitatori dei padiglioni della Fiera di Rimini nell’ambito della 33ª edizione del Meeting che quest’anno ha per titolo “La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito”. La prima proiezione presso la Sala Cinema A7 ACEC, quella pomeridiana, è in programma per le ore 14:30, questa volta con Pirati! Briganti da strapazzo (The Pirates! Band of Misfits, 2012) diretto da Peter Lord e Jeff Newitt e prodotto dalla Aardman Animations (i papà dei famosi Wallace e Gromit) mentre quella serale è prevista per le ore 21:30 con Una separazione (Jodái-e Náder az Simin, 2011) diretto dal regista iraniano Asghar Farhadi (classe 1972, proveniente da studi teatrali e alla sua quinta regia), che viene riproposto al pubblico del Meeting dopo un’autentica marcia trionfale durata un anno e mezzo: l’opera ha infatti ricevuto – tra i molti altri riconoscimenti – l’Orso d’oro per il miglior film, l’Orso d’argento per i migliori attore e attrice (entrambi conferiti a tutto l’insieme del cast maschile e femminile) e il Premio della giuria ecumenica al 61º Festival internazionale del cinema di Berlino (2011); il Golden Globe e l’Academy Award 2012 per il migliore film in lingua straniera (ai premi Oscar era stato inoltre candidato anche per la migliore sceneggiatura originale) e il David di Donatello 2012 come miglior film straniero.
La prima pellicola racconta la storia di Capitan Pirata (che nella versione italiana ha la voce di Christian De Sica) che decide di mettersi in lizza per vincere il concorso di Pirata dell’anno, premio assegnato durante quella che è in tutto e per tutto una sorta di notte degli Oscar dei bucanieri. Per raggiungere il suo ambizioso scopo – al quale comunque si votano subito tutti i membri della variegata ciurma della nave -, oltre ai sorprendenti incontri che possono capitare a chi naviga lungo le rotte dei sette mari, i nostri “briganti da strapazzo” devono vedersela direttamente con una giovane e assolutamente determinata regina Vittoria (tra l’altro freschissima di titolo, essendo la vicenda ambientata nel 1837, anno della sua ascesa al trono, e con la voce italiana di Luciana Littizzetto), il cui motto è – guarda caso – “Io odio i pirati!”.
Questa testa coronata dai gusti davvero raffinati, oltre che regali, se si parla di degustare le carni degli animali in via d’estinzione, diventa l’ostacolo più tosto da affrontare per restituire ai pirati la loro adorata mascotte, il “pappagallo” Polly (che è in realtà un dodo), ultima e definitiva prova che Capitan Pirata non può che affrontare insieme ai suoi fedeli amici e con l’aiuto di un giovane Charles Darwin, non ancora divenuto il profeta dell’evoluzionismo. Il tutto attraverso gli 80 minuti di una pellicola in cui non mancano esilaranti tocchi di umorismo davvero british conditi con brillanti citazioni cinematografiche, Monty Python e il John Merrick di The Elephant Man (1980, David Lynch) in testa.
Il secondo film in programma ci porta invece nell’odierno Iran, tra le quattro mura dell’abitazione di una moderna famiglia i cui membri si stanno però separando, come mette subito in chiaro la serrata sequenza iniziale di fronte al giudice a macchina da presa fissa: Simin (Leila Hatami) desidera infatti lasciare il Paese in compagnia del marito Nader (Peyman Moadi) e della loro unica figlia Termeh (Sarina Farhadi, figlia del regista). Nader però non accetta in alcun modo di lasciare da solo il padre malato di Alzheimer (Ali-Asghar Shahbazi): questa sua decisione spinge Simin a chiedere il divorzio e a lasciarlo per tornare a vivere con i suoi genitori.
Termeh sceglie invece di rimanere in casa con il padre e con il nonno, per prendersi cura del quale Nader assume come domestica Razieh (Sareh Bayat), che non solo è incinta, ma lavora all’insaputa del marito Hojjat (Shahab Hosseini), due persone entrambe molto osservanti delle tradizioni. A un certo punto si vede infatti la donna chiamare la polizia coranica per sapere se sia o no peccato aiutare il vecchio che si è fatto la pipì addosso a cambiarsi i pantaloni del pigiama, essendo lei l’unica persona presente in grado di farlo.
Purtroppo un drammatico evento dà il via a una dura disputa legale (con pericolosi risvolti di carattere penale) che porta tutti i personaggi coinvolti di fronte al giudice, uno scontro che strada facendo acquista i contorni di un violento conflitto – sia di classe, sia famigliare – che non lascerà indenne nessuno dei protagonisti e durante il quale ci si renderà conto di quanto possano essere sottili e ambigui i confini che dividono la verità dalla menzogna, la ragione dal torto, il giusto dallo sbagliato.
Colpisce il respiro di tono universale, ma anche lo studio sul presente con cui il film riesce a sorprendere fin dalle prime sequenze anche lo spettatore ignaro dell’attuale situazione iraniana, attraverso la delicata e lucida descrizione di situazioni e circostanze che si avvertono non appartenere alle sole vicende private di due famiglie, ma assurgere a paradigma della condizione di un intero Paese stretto tra la rigidità della tradizione (anche religiosa) e un latente clima di individualismo frutto della modernità.
Come è stato scritto, il regista «lascia parlare “le cose”, come una volta si diceva dei film neorealisti. Ovvero quell’insieme di conflitti, vistosi o invisibili, che sono al centro della vita sociale. […] Usando le immagini non per cullarci o stordirci, ma per accendere la nostra immaginazione, come sa fare solo il grande cinema. Con tale esattezza d’accenti che perfino la severissima censura iraniana non ha trovato niente da dire. Anche perché nessuno è davvero innocente, né del tutto colpevole».