To forgive (pass. forgave; p.p. forgiven): perdonare (a), rimettere (un peccato). Da cui il participio passato con valore negativo unforgiven: non perdonato/i, non rimesso/i. Già, ma che cosa o a chi? Perché il valore di questo aggettivo può essere duplice, a seconda di quello che gli viene accostato: potrebbe indicare sia ciò che non è stato perdonato o rimesso, ovvero la colpa o il peccato stessi, sia la persona a cui non è stata perdonata la colpa o rimesso il peccato. Un bel dubbio da sciogliere, alla base della domanda che giusto venti anni fa si è sentito rivolgere l’allora sessantaduenne attore e regista Clint Eastwood (1930) all’uscita nelle sale cinematografiche statunitensi nel mese di agosto del 1992 del suo Unforgiven, il cui titolo al momento della distribuzione della pellicola in Italia è stato poi tradotto – optando per una delle due soluzioni proposte – con un decisamente meno significativo Gli spietati.
Eastwood non ha mai voluto chiarire tale interpretazione, se egli si riferisse cioè al famigerato ex pistolero William Munny (da lui interpretato) e ai suoi soci, l’ex collega Ned Logan (Morgan Freeman) e il giovane Schofield Kid (Jaimz Woolvett), o alle loro vittime o a quell’alone oscuro che pare anche fisicamente pesare sui volti di tutti i personaggi di questo film. Perché? Forse perché ne avrebbe poi fatto il filo rosso – basti pensare alla battuta-chiave del suo Walt Kowalski in Gran Torino (2008): «La cosa che tormenta di più un uomo è quella che non gli hanno ordinato di fare» – lungo il quale si sarebbe dipanata la sua successiva parabola creativa, dopo questo amaro e dolente western crepuscolare «dedicated to Sergio and Don» – ovvero Leone (1929-1989) e Siegel (1912-1991), i suoi due mèntori -, un’opera che all’epoca rappresentò, oltre che un successo di pubblico e di critica, la definitiva consacrazione dell’attore e regista come autore.
Impressiona ancora oggi pensare al fatto che Eastwood – la cui prima prova dietro la macchina da presa risale al 1971 – aveva acquistato già a metà degli anni Settanta i diritti per la sceneggiatura dal titolo The William Munny Killings di David Webb Peoples – poi noto come lo screenwriter di Blade Runner (1982, Ridley Scott) e de L’esercito delle 12 scimmie (12 Monkeys, 1995, Terry Gilliam) -, per tenerla poi in un cassetto fino a quando non avrebbe sentito di avere l’età giusta per interpretare il ruolo del protagonista. Come inoltre colpisce ricordare la celebre inquadratura posta in apertura del film – poi ripresa alla sua maniera anche da Quentin Tarantino nell’incipit di Bastardi senza gloria (Inglourious Basterds, 2009) – che sembra uscire direttamente dalle opere più mature di John Ford, accompagnata da un tema eseguito alla chitarra dedicato alla moglie di Munny e composto direttamente dallo stesso Eastwood.
«Era una giovane donna attraente e non senza prospettive. Per cui fu penoso per sua madre quando decise di contrarre matrimonio con William Munny, un noto ladro ed assassino, un uomo conosciuto per la famigerata brutalità e sregolatezza del suo temperamento. Quando morì, non fu per sua mano – come sua madre avrebbe potuto immaginare – ma per il vaiolo». «Qualche anno più tardi, la signora Ansonia Feathers compì il difficile viaggio verso la Contea di Hodgeman per visitare l’ultimo posto dove riposava la sua unica figlia. […] E non c’era niente sulla lapide che potesse spiegare alla signora Feathers perché la sua unica figlia avesse sposato un noto ladro e assassino, un uomo conosciuto per le famigerate brutalità e sregolatezza del suo temperamento».
Ai nostri occhi, pur ormai a vent’anni di distanza e di mezzo a tutti i titoli eastwoodiani che sono seguiti, è nello spazio di queste due didascalie, che aprono e chiudono il film, che si sprigiona come prezioso distillato il fascino maggiore esercitato dall’opera e dal suo autore. Che solo un anno dopo ci avrebbe riportato nel buio della sala, regalandoci un altro capolavoro, forse superiore al precedente: Un mondo perfetto (A Perfect World, 1993).
Come ha scritto Stefano Socci «[u]n perfetto eroe guerriero è […] il gunman protagonista [di questo film]. La sobria didascalia iniziale scorre su un’inquadratura di rara efficacia. Sul fondale del tramonto, vediamo a sinistra una casa, in mezzo un palo, a destra un albero e a destra della pianta un uomo che scava una fossa. La sintesi è una virtù del cinema e in casi come questo si tocca quasi la perfezione. Il tramonto indica sia la morte che la gloria (vd. […] il finale di Excalibur di Boorman) e William Munny (Clint Eastwood) seppellendo la moglie prefigura il suo destino eroico. La donna è morta e non c’è più casa per lui, quanto il ritorno alla natura (l’albero solitario allude al frassino cosmico della mitologia nordeuropea) ovvero all’unica cosa che conti veramente, il confronto-conflitto fra le radici e i rami dell’essere. […] Eastwood dimostra che Munny […] possiede un caldo sole interiore […]. Le donne e i focolari, si sa, durano poco, perché l’eroe deve tornare al viaggio e viaggiare significa verificare i limiti del mondo, e i limiti del mondo sono nient’altro che la soglia tra l’Io e il divino».
Un solo appunto ci sentiamo di muovere a questo pur illuminante affondo sul senso generale della parabola dell’ex pistolero per come proposta nella pellicola: la funzione a nostro parere tutt’altro che puramente accessoria del suo rapporto con il ricordo della moglie (e quindi con la moglie: si chiama memoria) e della presenza dei figli da guardare e accudire (la famiglia). Da quell’incontro qualcosa è cambiato anche nella vita di «un noto ladro ed assassino, un uomo conosciuto per le famigerate brutalità e sregolatezza del suo temperamento»: un segno misterioso che nessuna lapide o film potrà mai ricapitolare del tutto ma solo richiamare. Sia che a scrutarli siano gli occhi e la libertà di una madre o quelli di uno spettatore in sala.