È l’inizio degli anni Sessanta e il giovane Stanley Kubrick (1928-1999), giunto al suo quinto lungometraggio in sette anni di carriera, può a buon diritto sentirsi cucito addosso dall’industria hollywoodiana il titolo di regista cinematografico a tutti gli effetti, ormai reduce dalla travagliata lavorazione – all’inizio della quale era subentrato dietro la macchina da presa ad Anthony Mann – e dal grande successo nelle sale del kolossal storico Spartacus (1960), le cui locandine riportano nomi di prima grandezza quali Kirk Douglas, Laurence Olivier, Jean Simmons, Charles Laughton, Peter Ustinov e Tony Curtis. Come ha fatto notare in tempi molto più recenti sir Ustinov, con una chiusa dall’ironia tutta inglese, «[i]l suo grande pregio è che fu l’unico film di quel genere senza Gesù. Non c’era davvero traccia di cristianesimo in Spartacus. C’era fede, ma non cristianesimo. Se Kirk volesse essere premiato per il suo coraggio, io sarei il primo a farlo. Fare un film come quello senza Gesù ma con Kubrick è già una conquista straordinaria».

A poco più di trent’anni, essendo riuscito nell’arduo compito di governare una così complessa produzione, dopo decisi scambi di idee sul set che lo hanno visto protagonista innanzitutto con l’attore e produttore Kirk Douglas ma anche con alcuni degli altri membri del cast sia tecnico che artistico ed assolutamente consapevole che in una realtà lavorativa come quella di Hollywood non sarebbe mai riuscito a poter avere l’ultima parola sulla forma finale delle sue future pellicole, il “ragazzo del Bronx” si può finalmente dedicare ad «una storia che amo», ovvero alla trasposizione cinematografica del romanzo Lolita di Vladimir Nabokov, pubblicato a Parigi nel 1955 tra molte difficoltà con l’etichetta di opera pornografica ma subito dichiarato da Graham Greene come il libro dell’anno.

Come ricorda anche la vedova Christiane, Kubrick «[c]onsiderava Lolita un libro fantastico perché chiariva l’impressione che abbiamo tutti che il bene e il male non hanno le forme che ci aspettiamo» e ne trae un film che – segnando l’inizio di una nuova e feconda fase della sua carriera da “esiliato” nella vecchia Europa – esce nelle sale statunitensi nel giugno 1962 per arrivare due mesi dopo, esattamente cinquanta anni fa, in concorso al Lido di Venezia per la 23ª edizione della Mostra del Cinema (25 agosto – 8 settembre 1962), senza però ottenere alla fine nessun riconoscimento: quanto viene desunto dal testo di partenza – sceneggiato dal medesimo Nabokov – finendo impresso su pellicola è il drammatico processo di autodistruzione mentale, affettiva e fisica di un uomo, un intellettuale europeo, una parabola vista e narrata ora con toni quasi tragici, ora con accenti da commedia (anche se nera).

Come anche trentasette anni dopo nell’incipit del “definitivo” Eyes Wide Shut (1999), Kubrick scaraventa subito lo spettatore nel mezzo del terreno di lotta, dando concretezza visiva e sonora al desiderio di controllo e alla pulsione dell’ossessione, i temi per eccellenza della sua filmografia: nella pellicola tratta da Doppio sogno di Arthur Schnitzler sarà il corpo ripreso di spalle di Alice Harford (Nicole Kidman) che si disfa mollemente dell’abito che ha indosso sulle note del brano “Jazz Suite, Valzer n. 2” di Dmitri Shostakovich; nell’adattamento del romanzo di Nabokov è il piede sinistro di Dolores Haze detta Lolita (l’esordiente Sue Lyon) alle cui unghie vediamo applicato dello smalto con molta cura dalle mature mani di Humbert Humbert (James Mason) mentre risuona il “Lolita Love Theme” di Robert J. Harris eseguito al pianoforte.

Nel primo, sulla scorta di una confessione della moglie per un suo ipotetico tradimento dell’amore coniugale con un giovane ufficiale di marina durante una vacanza, il medico William Harford (Tom Cruise) inizia una sorta di percorso a stazioni nel “cuore di tenebre” del proprio io prima ancora che della notte metropolitana newyorkese mentre nel secondo un professore di letteratura francese da poco giunto a Ramsdale nel New Hampshire si lascia risucchiare, a partire dalla visione in giardino della figlia adolescente della sua padrona di casa, in un vortice che lo precipita sempre più in basso e al termine del quale ci aspetta però un finale diverso da quello pensato da Nabokov per la sua ninfetta con quel “nome lezioso, lirico, languido”.

Dove porre l’inizio di questo gorgo? Il regista statunitense – che, non dimentichiamolo, aveva iniziato la propria carriera prima come fotografo e poi come fotoreporter – mette sull’avviso lo spettatore fin dalle ultime ed apparentemente sconnesse parole dell’ambiguo ed istrionico Clare Quilty (Peter Sellers) rivolte al suo frustrato assassino in avvio di pellicola, subito dopo il citato incipit: «Just you there, and nobody else, just watching, watch. Do you like watching?»; «Solo lei lì, e nessun altro, potrà guardare, guardare. Le piace guardare?». Come ci avrebbe ricordato trent’anni dopo, sempre dal grande schermo illuminato immerso nel buio di una sala, una delle più perturbanti figure della galleria della storia del cinema recente, l’ex psichiatra pluriomicida Hannibal “The Cannibal” Lecter (Anthony Hopkins) a Clarice Starling (Jodie Foster) ne Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs, 1991, Jonathan Demme): «Desideriamo quello che vediamo, ogni giorno. Non senti degli occhi che girano intorno al tuo corpo? E i tuoi occhi non cercano fuori le cose che vuoi?».

Nel Lolita kubrickiano troviamo prima l’immagine del desiderio e successivamente l’accenno allo strumento per accrescerlo (ma non soddisfarlo): due porte d’ingresso ai 147 minuti di un’opera che resta ancora oggi un raffinato saggio sul vedere e sui suoi effetti firmato da un Maestro in divenire, un Prospero novecentesco esperto nella “visione delle visioni”.