La 69-esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia, di scena in questi giorni al Lido, onora quel che resta del cinema nazionale assegnando il Leone d’Oro alla carriera a Francesco Rosi. Il regista e sceneggiatore napoletano, che compirà novant’anni il prossimo novembre, è infatti uno dei pochi autori ancora viventi tra quelli affermatisi nel periodo d’oro del cinema italiano. Il riconoscimento, che verrà consegnato questa sera in occasione della proiezione della copia restaurata de Il Caso Mattei (1972), viene attribuito su proposta del direttore della Biennale Alberto Barbera, che in merito alle motivazioni ha tra l’altro dichiarato “Rosi ha lasciato un segno indelebile nella storia del cinema italiano del dopoguerra. La sua opera ha influenzato generazioni di cineasti in tutto il mondo per il metodo, lo stile, il rigore morale e la capacità di fare spettacolo su temi sociali di stringente attualità.” Parole ampiamente sottoscrivibili. Dispiace però riscontrare, nella figura di un regista novantenne, l’ultimo (quasi) rappresentante di un cinema che non c’è più, quello italiano tra la fine di cinquanta e la metà dei sessanta. Epoca nella quale esordivano alla regia personaggi come Pasolini, Olmi, Ferreri, Sergio Leone e numerosi altri, quando Antonioni faceva il salto – definitivo e possente – dal documentario al cinema d’autore, quando Bertolucci, Bellocchio ed i fratelli Taviani trovavano facilmente produttori disposti a scommettere sulle loro incursioni – vittoriose – nelle insidie linguistiche del nouvelle cinéma, quando la commedia diventava il genere nazionale, di taglio popolare ed a tratti farsesco ma sovente veicolo di alti contenuti sociali e morali, quando Fellini, De Sica e Rossellini, in un qualunque paese estero assennato – estremo oriente compreso – non solo erano additati a vista come registi di meritoria fama, ma addirittura identificati con il Cinema. 

Nel ricevere il meritato Leone d’Oro sulle rosse passerelle del Lido di Venezia, Francesco Rosi porta con se parte di tutto questo, centosedici anni ed alcuni mesi dopo la nascita ufficiale della settima arte. Curiosa divagazione temporale, che solo serve per sottolineare quanto dispiaccia constatare, oggi, di non essere stati in grado di dare adeguato seguito a quel modello di cinema italiano, che negli ultimi decenni è stato sostituito da un qualcosa di nemmeno lontanamente paragonabile, perfino difficile da definire, tanto da renderci arduo il compito di individuare a che punto del cammino si sia sbagliato strada.  

Nato a Napoli nel 1922, durante la guerra Rosi studia giurisprudenza per poi darsi dal 1946 interamente allo spettacolo, inizialmente nel mondo teatrale in veste di assistente alla regia. Passa poi al cinema come aiuto regista di Visconti in La Terra Trema (1948) e Senso (1953), e come coautore di sceneggiature per altri registi, tra cui ricordiamo Bellissima (1951) dello stesso Visconti, ed Il Bigamo (1955) di Luciano Emmer.

Dirige il primo lungometraggio nel 1958. Si tratta del film La Sfida, storia di infiltrazioni malavitose al mercato ortofrutticolo di Napoli, nel quale già affiorano – evidenti – le tematiche politico-sociali peculiari di tutto il suo cinema, poi meglio sviluppate nelle opere successive. Esordio felice, con cui ottiene il Premio Speciale della Giuria proprio a Venezia. 

Formatosi culturalmente all’ombra del neorealismo, come molti suoi coetanei, Rosi ne rappresenta uno dei suoi successivi sviluppi, quello del cinema d’inchiesta. Infatti, egli può essere a buon diritto considerato il capostipite nobile del filone del cinema cosiddetto di “impegno civile”, di taglio politico e sociale, episodicamente di denuncia, che ha segnato una buona parte della produzione nazionale degli anni sessanta e settanta. Ruolo che si ritaglia con la forza dell’evidenza, partendo dai due film successivi al secondo, ancora della fase formativa, I Magliari (1959). E’ infatti con Salvatore Giuliano (1961) e conLe Mani sulla Città (1963) che il regista mette in campo le sue effettive potenzialità stilistiche ed i suoi interessi tematici ed ideologici: è in questa fase che Rosi diventa l’autore italiano di punta nel campo del cinema di impegno civile, facendo da esempio trascinante per tutta una generazione di giovani registi esordienti. 

Dopo tre pellicole interlocutorie, Il Momento della Verità (1965), C’era una Volta (1967) e Uomini Contro(1970), poco apprezzate da pubblico e critica per il temporaneo allontanamento dalle ormai consolidate tematiche sociali, arriva il capolavoro del cinema d’inchiesta Il Caso Mattei (1972), che gli vale la Palma d’Oro al festival di Cannes. Continuando, con stile sempre più lineare ed essenziale, nel cinema di passione civile, non è un caso che Rosi si trovi a mettere in scena testi di autori che, come lui, fanno della ricerca della verità e della denuncia sociale una priorità: è la stagione di Cadaveri Eccellenti (1976), tratto da Leonardo Sciascia, e di Cristo si è Fermato a Eboli (1979) dall’omonimo romanzo di Carlo Levi. Nella parte finale della carriera la produzione fatalmente si dirada, pur componendosi ancora di episodi notevoli, di derivazione letteraria, come la trasposizione di Garcia Marquez Cronaca di una Morte Annunciata (1987), e La Tregua (1997), liberamente tratto dal romanzo di Primo Levi, suo ultimo quasi struggente film, inatteso estremo omaggio al cinema dello sguardo. 

Da notare, infine, che Francesco Rosi è stato uno dei pochi registi italiani a lavorare sulla pluridimensionalità del tempo filmico. Cioè, nei suoi film, il tempo del racconto non è quasi mai lineare, ma spesso si compone di varie temporalità differenti, in coesistenza dialettica tra di loro. Questa presenza di tempi diversi, lineari (modernità) e circolari (mito) operanti nello stesso spazio narrativo, riflette sul piano stilistico la difficoltà, esperita a livello contenutistico, nella ricerca di verità storiche e sociali, ovvero le tematiche chiave del suo cinema.