Cent’anni fa nasceva a Ferrara, da una famiglia della media borghesia locale, Michelangelo Antonioni. Sceneggiatore e regista di importanza capitale nella storia del cinema, tanto da essere spesso associato all’idea stessa di cinema moderno, Antonioni comincia la carriera negli anni Quaranta come documentarista, arrivando al narrativo solo nel 1950 con Cronaca di un amore, film che segna la fine del neorealismo. Dirige in tutto quindici lungometraggi fino 1995, anno di Al di là delle nuvole, ultima regia a quattro mani con Wim Wenders. Realizza nello stesso periodo anche due “corti”, inseriti nei film ad episodi Amore in città (1953) e I tre volti (1965), oltre ad alcuni brevi documentari e al videoclip della canzone di Gianna Nannini Fotoromanza (1984).
Ma la predetta importanza, universalmente riconosciuta, di Michelangelo Antonioni va ben oltre il valore del singolo film. Autore che raramente ha incontrato il favore del grande pubblico, considerato dai produttori scomodo perché poco commerciabile (unico grande successo: Blow-up del 1966), Antonioni ha comunque saputo imporsi all’attenzione della critica mondiale per l’intelligenza e la lungimiranza delle sue scelte stilistiche. Egli è il regista italiano che più di altri ha affermato il cinema dello sguardo, sinonimo per eccellenza di modernità della settima arte.
Antonioni ha sviluppato un modo nuovo di guardare e filmare persone, luoghi e spazi, arrivando a una sorta di pensiero per immagini. Nelle sue opere spesso seguiamo un personaggio-guida, quasi sempre una donna, che percorre la città contemporanea metropolitana, oppure le vastità di una natura ostile, facendo da apripista allo sguardo della macchina da presa sul mondo, su misteri e certezze, uomini e donne, spazi, sguardi. Per Antonioni, come molti altri dopo di lui, il cinema altro non è che una sorta di riflessione sullo sguardo umano, sulla sua capacità di comprendere le terrene vicende e i luoghi da esse animati e percorsi.
Per tutto ciò valga rammentare due momenti topici di un’immortale carriera: il cinema di puro sguardo, o quasi, che troviamo nella prima mezz’ora de L’Avventura (1959) e il movimento di macchina nella scena finale di Professione: Reporter (1974). Nel primo, la misteriosa sparizione di Anna diventa il simbolo di un cinema, quello classico, che sta per essere sostituito da qualcos’altro. Nel secondo, il piano-sequanza con cui Antonioni racconta, senza mostrarlo, l’assassinio del protagonista costituisce un interessante paradosso: a un ampio e lungo movimento della macchina da presa corrisponde una scarsissima visione della scena. Fatto che reca in sé un chiaro valore metaforico: il cinema moderno è quello che lascia allo spettatore più domande che risposte.
Quest’ultimo, nelle sue linee peculiari, è descrivibile anche come il completamento della rivoluzione visiva inaugurata dal neorealismo. Principale conseguenza: l’abbandono dell’illusione di realtà, basata sulla narrazione oggettiva ottenuta tramite la trasparenza e la continuità del montaggio. Questo nuovo cinema venne anche definito – da Pasolini – di “poesia”, inteso come un cinema soggettivo in contrasto con quello del racconto oggettivo, in prosa, del classico.
Se il cinema di prosa rispetta le convenzioni della narrazione, paragonabili a quelle di un romanzo ottocentesco, quello di poesia è il cinema che le trasgredisce. Michelangelo Antonioni è stato un assoluto protagonista di quest’ultimo. Come già detto, figura autoriale le cui opere sono divenute negli anni addirittura un manifesto della modernità.
Numerosi i riconoscimenti ricevuti da Antonioni negli oltre quarant’anni di attività. Ricordiamo il Leone d’Oro di Venezia per Il deserto rosso (1964), suo primo film a colori, la Palma d’Oro a Cannes per Blow-up (1967) e l’immancabile Oscar alla carriera attribuitogli dall’Academy nel 1995.
Perciò, per un regista cinematografico di questo calibro, una nascita nel 1912 pare assai emblematica, quasi profetica, in quanto avvenuta solo alcuni anni dopo le funambolie visionarie di George Melies, creatore – come recita il suo epitaffio – dello spectacle cinematographique, e pochissimi prima che l’americano David W. Griffith, aiutato da quei pazzi anarchici delle comiche slapstich, inventasse linguaggio e divismo del cinema classico.
Antonioni nasce, per così dire, con il cinema, e la sua lunga vita abbraccia gran parte della sua storia. Ci ha lasciato il 30 luglio 2007, proprio nello stesso giorno di un altro prim’attore del cinema moderno come lo svedese Ingmar Bergman, curioso destino incrociato di due longevi giganti della settima arte.
“Antonioni fa parte della ristrettissima cerchia di cineasti-poeti che si creano il proprio mondo, i suoi grandi film non solo non invecchiano ma col tempo riscaldano” sosteneva il regista russo Andrej Tarkovskij, sentito omaggio di un illustre allievo al maestro Michelangelo, immortale poeta dell’immagine.