A cinque anni dal potente e spaventoso studio di un’epoca e di due umanità impazzite de Il petroliere (There Will Be Blood, 2007), Paul Thomas Anderson (1970) – per alcuni il nuovo Kubrick – firma The Master, un altro spiazzante e affascinante ritratto di homo americanus. Forse non l’indiscutibile capolavoro – almeno non quello del suo autore – che ci si aspettava, ma di certo un denso e complesso film che mostra e dice più di quel che fa vedere e racconta, nel quale i due protagonisti non appaiono tanto feroci contendenti che si sfidano per il dominio sull’altro e sugli altri quanto i lati di uno stesso specchio, le metà di un medesimo essere destinate a incontrarsi e ricercarsi per finire con l’abbattere le immagini di sé che ciascuno proietta – volontariamente o meno – nell’altro. La storia di un amore/odio – Leone d’Argento per la regia e Coppa Volpi ex aequo per gli attori a Venezia 2012 – da sezionare fotogramma per fotogramma, alla ricerca di un senso e di un segreto che “sfondino” l’ambigua (e debole) inquadratura finale.
Una scia di schiuma lasciata nel mare da un grosso bastimento e subito dopo due occhi indecifrabili che vediamo spuntare appena da sotto un anonimo elmetto e dei quali di lì a poco scopriremo il proprietario: il marinaio Freddie Quell (Joaquin Phoenix), un uomo dedito agli intrugli alcolici di cui è lui stesso il creatore, come un fumatore compulsivo potrebbe esserlo alle sigarette di sua fabbricazione. Il bastimento è una nave da guerra, il mare è l’Oceano Pacifico e il tempo dell’azione è la fine della Seconda guerra mondiale: «In mare non paghi l’affitto e puoi andare dove vuoi» gli dirà anni dopo – e in fine di pellicola – Lancaster Dodd (Philip Seymour Hoffman), il “maestro”del titolo, da lui incontrato “casualmente” proprio su una barca che sta affrontando il viaggio da San Francisco a New York attraverso il Canale di Panama e che in occasione del loro primo incontro si definisce «uno scrittore, un dottore, un fisico nucleare e un filosofo teoretico, ma soprattutto un uomo irrimediabilmente curioso, proprio come te».
Non stiamo però parlando di uno dei tanti soldati magnificamente e polifonicamente ritratti in uno dei “war movies” più eccezionali della storia del cinema firmato Terrence Malick («Tra i sani di mente e i pazzi c’è solo una sottile linea rossa») e nemmeno di un emulo di un altro grande uomo di mare che il genio di Herman Melville ha regalato alla letteratura americana e mondiale («Dal portello Achab traversò lentamente la coperta, si chinò sulla fiancata, e guardò come la sua ombra nell’acqua affondava sempre più ai suoi occhi quanto più cercava di penetrarne l’intimo. […] Di sotto al cappello tirato sugli occhi una lacrima cadde nel mare: e tutto il Pacifico non conteneva ricchezze eguali a quella misera goccia»).
Capiamo però di avere fin da subito a che fare con un loro non poi troppo lontano parente: anche qui abbiamo una storia che cerca di raccontare il misterioso confine tra la ragionevolezza e la pazzia che passa nel cuore di un uomo (e quindi di ogni uomo), mentre quel «grande fantasma incappucciato, simile a una collina di neve nell’aria» di nome Moby Dick qui è sostituito da un altrettanto evocativo “The Master”. Ma così come David Herbert Lawrence (1885-1930) ha scritto che essa «è un simbolo. Ma di che cosa?», anche questo “maestro” non è puramente identificabile con il solo personaggio della pellicola – ispirato a Ron Hubbard (Lafayette Ronald Hubbard, 1911-1986), fondatore di Scientology e autore di Dianetics – a cui tale appellativo si riferisce: «If you figure out a way to live without a master, any master, be sure to let the rest of us know, for you would be the first in the history of the world» (questa una delle battute-chiave della sceneggiatura originale).
Istinti, attrazioni, affetti, appartenenze, ossessioni: per quale dinamica e a costo di quale sacrificio – se di sacrificio si tratta – siamo disposti a cedere una parte di chi pensiamo di essere a qualcuno che è fuori di noi e che pure sembra essere parte di noi o dare risposta a qualcosa che avvertiamo presente in noi? Quanto uno stato di apparente follia è realmente una latente condizione patologica o è nei fatti la spia di una sofferta situazione di “de-siderio” il cui emblema diventa una sedicenne che pensiamo in nostra attesa nella cittadina del Massachusetts da cui proveniamo? Eppure anche quello che consideriamo un errore non è forse una verità impazzita, come ebbe a dire Gilbert Keith Chesterton (1874-1936)?
È stato scritto che Stanley Kubrick (1928-1999) – a cui il regista del film è stato avvicinato in occasione di questa sua ultima opera – è stato l’unico ad aver saputo individuare l’esatto peso specifico del nulla in movimento, trasformandolo in cinema: attraversando gli oltre 130 minuti della pellicola e osservando il Dodd di Seymour Hoffman, ma soprattutto il Quell di Phoenix (a ogni buon conto il vero protagonista del film), tornano alla mente le visioni a occhi aperti di Shining (1980) e la “folle” interpretazione di Jack Nicholson, anch’esse chiuse da un’inquadratura finale che sembra aprire più che concludere. In questo caso, però, ci appare come una soluzione piuttosto debole per un film (e un regista) così ambizioso, che “esplode” il rapporto coi dèmoni (ma anche coi demoni) che ci portiamo appresso lungo la nostra (faticosa) strada.