Il cinema è finzione e, oggi, nessuno sa di-mostrare questo assunto meglio di Quentin Tarantino. Il suo ultimo film Django Unchained, appena uscito nelle sale italiane, ce lo ricorda quasi a ogni inquadratura e – soprattutto – a ogni dialogo, anche se non si può negare che questa volta il regista affronti, a suo personalissimo modo, un traccia tematica tutt’altro che trascurabile: il razzismo.
Il razzismo e la violenza legalizzati dell’America pre-Abramo Lincoln negli anni a ridosso della Guerra di secessione, come indicato da una gialla traccia grafica sull’incipit, sono la materia grezza del film, e il genere da rivisitare e stravolgere per guardare quel periodo è, naturalmente, il western. Materia grezza cui Tarantino dà la consueta forma visiva elegante, a tratti addirittura sublime. Genere western che il regista piega alle sue esigenze formali e narrative, ora rivisitandone – omaggiante – i principali topos (la chiacchierata serale dei cow-boy al bivacco, con tanto di caffè bollente e fagioli; il duello fuori dal saloon con mille occhi scrutanti alle finestre), ora ribaltandoli con evidente compiacimento scenico: i bianchi sono, tutti, i bastardi senza gloria di questa storia, compreso il finto intellettuale cacciatore di taglie, dedito all’omicidio legalizzato a scopo di lucro, liberatore dello schiavo Django solo per personale tornaconto.
La vicenda è imperniata su una singolare amicizia. L’ex dentista tedesco ora cacciatore di taglie dr. King Schultz (Christoph Waltz) libera e riscatta lo schiavo Django (Jamie Foxx) perché lo aiuti a scovare tre negrieri su cui pende una grossa taglia. Trovati e uccisi questi, i due stringono un patto: Schultz aiuterà Django a ritrovare la moglie, venduta in una piantagione lontana, in cambio di un aiuto nel suo “lavoro”. La comune ricerca attraversa un inverno (vago richiamo a Sentieri Selvaggi, J. Ford 1956), lascia una scia di sangue e si conclude presso Candyland, piantagione della Louisiana di proprietà di uno spietato schiavista (Leonardo Di Caprio). Qui infatti si trova la sposa Broomhilda (Kerry Washington), che Django, salvatosi furbescamente da nuova prigionia – e dopo la morte del dottore – libera con una gran sparatoria finale seguita da una scintillante esplosione notturna, in bilico tra Sam Peckinpah e il John Woo di The Killer (1989).
Il film, come sempre nel caso di Tarantino, dà l’impressione di essere tutto un gigantesco, spettacolare, piacevolissimo iper-testo, vuoto di significati immediati, ma architettato per ospitare altro, cioè quel gioco di citazioni esibite, di commistione di generi e stili che è la sua unica e vera sostanza. Questa volta, però, il tema razziale si infila come un discorso autentico dentro tutto ciò, con forza autoctona, come materia viva che il film offre alla riflessione dello spettatore.
Per uno dei principali autori del post-moderno, qual è Tarantino, il rapporto dialettico tra immagine e realtà, luogo dove si celano gli intenti didascalici del cinema, non esiste: l’immagine filmica rimanda solo a se stessa, il suo unico senso è la sua esistenza, fuori di essa non esiste alcuna realtà; così il cinema serve solo a mostrare immagini, non è in relazione con nessuna realtà al di fuori di esse. Per questo le sparatorie e le altre (presunte) scene violente di Django Unchained, come degli altri suoi film, non sono altro che movimento in plastico divenire, violenza di maniera, molto cinematografica, sfacciatamente finta, come di consueto ripresa con eleganti piani sequenza che la fanno somigliare ai balletti dei musical anni Trenta.
Ma in Django Unchained si scorge anche una nobile eccezione, un raro momento di verità – di taglio moderno – nella cinematografia cinefila di Tarantino: la violenza razzista è verosimile, sia quella sul fuggiasco sbranato dai cani come quella sulla fanciulla segregata nel pozzo; essa è solo accennata e poi lasciata nel fuori campo, quindi vista dallo spettatore attraverso gli occhi, ora avviliti ora compiaciuti, degli spettatori in scena (i personaggi), soprattutto attraverso gli occhi furenti di Django, il protagonista di colore, perché “solo lui può capire la violenza e il razzismo che lo circonda: non con la ragione, ma con la pancia”. E trattandosi di cinema, gli spettatori che guardano il suo sguardo è come se introiettassero quella barbarie attraverso i neri occhi di un “negro” dell’America di oggi, che ha sguardo sincero poiché porta dentro di sé la tragica memoria bio-storica dello schiavismo.
Questi passaggi sono quelli che conferiscono a Django Unchained quella dignità tematica alta che manca in quasi tutta la precedente filmografia del regista, per scelta volontaria e vincente. Nonostante il finale sfacciatamente spettacolare, con tanto di uscita di scena trionfante di Django e della sua bella dopo l’esplosione di Candyland, che pare riportare tutto sul piano del falso, il film costituisce comunque un interessante e intenso punto di vista sul razzismo e sulla condanna delle sue barbarie. Il tutto condito da gustosi personaggi “alla Tarantino”, come il negriero bello, elegante e crudele interpretato da Di Caprio, o l’anziano kapò di colore che governa la sua piantagione (Samuel Jacknon), o anche, e soprattutto, il serafico dr. Schultz, che sintetizza l’interomood del film quando, rispondendo a Django che lo interroga sulla sua identità, dice: “Sono uno scrittore, un medico, un fisico, e soprattutto sono un uomo, esattamente come te”.