Rinverdendo il versante impegnato della sua ormai ultraquarantennale carriera e ispirandosi (in parte) al libro “Team of Rivals: The Political Genius of Lincoln” di Doris Kearns Goodwin, «il più grande narratore di fiabe e parabole del nostro tempo» (in fatto di cinema) torna a un tema già toccato ne Il colore viola (The Color Purple, 1985) e in Amistad (1997) con una pellicola che non è una biografia ma il denso ed “esaustivo” racconto di circa un mese della vita pubblica e privata del 16° presidente statunitense (nei cui panni giganteggia Daniel Day-Lewis, in un’interpretazione alla lunga soffocata dal monotono doppiaggio italiano). Con questa lezione sulla Democrazia nella quale il Cinema si piega al servizio della Storia e il cui fervore civico si misura più in parole che in immagini, Steven Spielberg (1946) tenta di condensare le vicende piccole e grandi che si sono addensate attorno all’approvazione da parte del Congresso del XIII Emendamento alla Costituzione (relativo all’abolizione della schiavitù in tutto il Paese) il 31 gennaio 1865. Candidato a 12 premi Oscar, tra i quali quelli per i migliori film, regia, attore protagonista, attore (Tommy Lee Jones) e attrice (Sally Field) non protagonisti, sceneggiatura non originale (Tony Kushner).
Nei manuali di storia, l’inizio dell’affrancamento degli schiavi afroamericani è fatto coincidere con il primo gennaio 1863, quando – a quasi due anni dallo scoppio della sanguinosa guerra civile (1861-1865) che vedeva contrapposti gli stati dell’Unione a quelli della Confederazione – il Presidente repubblicano Abraham Lincoln, nel corso del suo primo mandato, emanò il cosiddetto “proclama di emancipazione”, che dichiarava liberi tutti gli schiavi di proprietà di quei “ribelli” del Sud che non avessero immediatamente cessato le ostilità contro il Nord. Questo provvedimento – frutto di un atteggiamento naturalmente pragmatico e non dovuto solo al realismo politico dettato dalla guerra in corso – era però limitato agli «stati o parti di stati […] in ribellione contro gli Stati Uniti» (dei quali intendeva così minare il retroterra sociale e produttivo), senza quindi considerare il sistema schiavistico di fatto ancora in vigore in quegli stati di frontiera che al momento della secessione sudista avevano scelto di dichiarare la loro fedeltà all’Unione.
Due anni più tardi sarebbe stato necessario un emendamento costituzionale, il XIII – fortemente perseguito dal Presidente originario dello stato dell’Illinois (a quel tempo da poco eletto per il suo secondo mandato) e approvato dal Congresso il 31 gennaio 1865 – per rendere tale disposizione universale e permanente.
La sera del 14 aprile, poco meno di una settimana dopo la resa del generale Robert E. Lee al generale Ulysses S. Grant, Lincoln verrà assassinato mentre sedeva in un palco durante una rappresentazione teatrale da un pazzo fanatico che intendeva così vendicare la sconfitta degli Stati Confederati: gli succederà Andrew Johnson, ex appartenente al Partito democratico di origini sudiste (e scelto per la vicepresidenza nella competizione elettorale del 1864 come segno tangibile della sua volontà di riconciliazione nazionale), il cui atteggiamento conservatore in materia razziale rischierà però di minare seriamente quanto conseguito al massimo livello legislativo. Ma a questo punto della Storia sono ben altri gli scenari che si apriranno.
È proprio nello spazio di tempo che intercorre tra questi due distinti eventi della storia statunitense che prende le mosse l’ultima e sorprendentemente “parlata” pellicola di Steven Spielberg (il visual storyteller hollywoodiano per eccellenza dei nostri tempi), dedicata alle giornate e ai momenti di carattere sia pubblico che privato di quelle settimane del gennaio 1865 immediatamente precedenti il voto del Congresso in materia di abolizione della schiavitù su tutto il territorio nazionale, vale a dire il contenuto del XIII emendamento alla Costituzione statunitense (il XIV – che, pur contenendo la clausola dei “tre quinti”, intendeva garantire la cittadinanza agli afroamericani senza però concedere loro il diritto di voto – sarebbe stato approvato nel giugno 1866), attraverso la figura di Abraham Lincoln, goffo (per l’altezza) avvocato proveniente dall’Ovest, che una volta giunto a Washington rivelò a poco a poco le sue grandi qualità umane e politiche.
Ne emerge il ritratto di un uomo e di uno statista del quale Day-Lewis restituisce le sfumature psicologiche con impressionante capacità mimetica (dà ancora i brividi ripensare alla camminata finale nei meandri della Casa Bianca – degna di Henry Fonda – al termine di quella che resterà la sua ultima riunione di gabinetto), descritto nelle alterne fasi della lotta da lui ordinata per trovare (quasi) a ogni costo i venti voti necessari all’approvazione di uno dei più sofferti provvedimenti legislativi della storia degli Stati Uniti. E dove ogni riflessione, analisi, decisione riecheggia anche il (nel) nostro travagliato presente: il film si apre con il suono, il fango e il sangue della guerra per chiudersi con la più classica (un aggettivo che bene si adatta anche alla pellicola nel suo complesso) delle dissolvenze in nero sulle parole da lui pronunciate durante la cerimonia del suo secondo insediamento («Con malanimo verso nessuno, con amore per tutti, con intransigenza nel buon diritto, come Dio ci consente di vederlo, lottiamo per portare a termine l’opera iniziata […], per fare tutto quello che può assicurarci e mantenere una pace giusta e durevole fra noi e con tutte le nazioni»).