Usciva nell’ottobre del 1968 il film d’esordio di George A. Romero La Notte dei Morti Viventi che, pur non essendo il primissimo sugli Zombie della storia del cinema – esistono alcuni precedenti, a cominciare da White Zombie (V. Halperin, 1932), per non citare I Walked With a Zombie (1943) del maestro J. Tourneur – è di certo quello ben presto diventato un’icona del cinema horror e horror-thriller contemporaneo. Una pietra miliare del genere, che ha aperto la strada anche all’horror più estremo e sanguinario, splatteroni di tutte le serie, tanto da venire inserito nel 1999 nel National Film Registry statunitense come film “esteticamente significativo”. Ne celebriamo oggi, a 45 anni di distanza, le indubbie qualità filmiche e l’esemplarietà riguardo ai successivi sviluppi del genere.

Dopo la fase di fondazione, dove i caratteri e i temi sono ripresi dalla letteratura gotica ottocentesca, e la successiva fase della cosiddetta normalizzazione, dove il mostro diventa uno come noi e l’orrore è più suggerito che mostrato, la figura dello Zombie barcollante, sanguinolento e spettrale, introducendo i nuovi temi della persistenza e diffusione del male – e il suo carattere epidemico -, apre la terza e definitiva fase del cinema dell’orrore. È questa la grande importanza del film di Romero, opera di confine in un genere che ha la peculiare caratteristica, comune a ogni sua fase, di lavorare narrativamente e visivamente sul confine; tra bene e male, fascinoso e mostruoso, luce e ombra, vita e morte.

In una piccola città della Pennsylvania delle radiazioni misteriose fanno resuscitare i morti, trasformandoli in mostri bramosi di sangue e carne umana. Un gruppo di persone trova momentaneo rifugio in una fattoria abbandonata, che non riesce più a lasciare perché assediata da moltissimi Zombie. La tv racconta che in tutto lo stato è in atto l’inverosimile fenomeno, migliaia di morti stanno tornando per nutrirsi di carne umana contagiando i vivi. Si informa che le autorità stanno organizzando rastrellamenti e punti di ritrovo e assistenza. Allora gli assediati progettano di raggiungerne uno, ma solo uno di loro riesce a sopravvivere all’assalto notturno degli Zombie. All’alba, creduto uno di loro, viene ucciso dalla polizia e cremato assieme agli Zombie veri.

Male indistinto, persistente ed epidemico, quindi. Oltre a questo, il film – seppure nel suo formato quasi artigianale, che però contribuisce decisivamente al suo fascino e alla sua fama – contiene, rivisitato, un altro topos del cinema americano dei generi classici, quello definibile come “dentro noi/fuori tutti gli altri”, rintracciabile soprattutto nel cinema western. In quello, il “noi” erano i bianchi colonizzatori della nuova frontiera, giusti nel giusto, e gli “altri” erano i nativi pellerossa, massa indistinta di selvaggi sottoacculturati e schierati dalla parte sbagliata. In Romero, stante anche questa rivisitazione, qualcuno ci ha visto un simulacro del massacro della guerra in Vietnam, al suo apice all’epoca del film.

Furbescamente – ma con grande “occhio” per il cinema – Romero conferisce al suo Zombie, al primo apparire nel cimitero della prima sequenza, una silhouette che è un mix tra quella di Frankenstein (la creatura-mostro, non il medico creatore) e quella del vampiro nel Nosferatu di F. W. Murnau (1922). Forse senza volerlo esplicitamente, e senza considerarlo uno stilema del suo cinema, Romero, nell’epoca che si affaccia al post-moderno, non può fare a meno per i suoi Zombie di nutrirsi anche della storia del cinema. I due personaggi dell’horror classico ricordati sono così radicati nell’immaginario dello spettatore, sia del 1968 che odierno, che viene quasi automatico servirsene per dare forma e sembianze a un – relativamente – nuovo personaggio-mostro come lo Zombie.

D’altronde il concetto stesso di morto vivente, contraddizione formale che nel genere – anche letterario – ha un suo peso specifico, richiama da vicinissimo il significato del termine Nosferatu, cioè il non-spirato, il non-morto, colui che sta (appunto) al confine tra vita e morte; termine che lo stesso Bram Stoker utilizza più volte come sinonimo di vampiro nel testo del suo Dracula (1897, per inciso: come poteva pensare di sfangarla Murnau con i diritti d’autore rimane un mistero).

Il termine inglesizzato Zombie invece deriva dall’haitiano, ed è legato ai riti animisti di magia nera e del voodoo propri di quei popoli; stava a indicare la figura del morto vivente evocato con tali riti. Infatti, i precedenti film sugli Zombie, quelli citati sopra come altri, erano solitamente ambientati ai Caraibi e si snodavano tra misteri voodoo e fascinose giungle tropicali. Quelli di Romero, invece, muovono da tombe occidentali e mangiano carne umana, diventando anche una metafora della voracità disacculturata e dissacrante della società dei consumi. Tema della carne molto caro al regista, poi meglio sviluppato nel secondo film della trilogia (quella pura) dei suoi Zombie, Dawn of the Dead (1979, in italiano semplicemente Zombi).

Ma il grande fascino del film, come già accennato, dipende soprattutto dal suo peculiare impatto visivo; un b/n sbiadito che crea quel clima di straniamento mai più raggiunto dai numerosi sequel. Questa sua forma un po’ sporca e imprecisa, come fu per il neorealismo, obbedisce all’idea di dover mostrare un qualcosa di urgente e necessario in un dato momento storico – relativamente alla settima arte – senza attardarsi a curare lo stile e la bella immagine: il cristallizzarsi in cinema di tematiche, quelle già descritte del male banale ma onnipotente, che emergono con forza dalla società, soprattutto americana, contemporanea alla realizzazione del film (fine anni Sessanta). Cioè: quando il cinema di genere, quello di primissimo livello, veicola anche idee elevate per lettori e guardoni scaltri.