Usciva nel novembre del 1993 il film di Nanni Moretti Caro Diario, suo sesto lungometraggio in quindici anni di attività professionale. Scarsa esposizione, rispetto alla produzione di altri registi suoi coetanei, che non è dipesa da un bizzarro vezzo da intellettuale, né da carenza di produttori disposti a investire, ma dalla coscienza che il cinema è cosa seria; che esso è materia drammatica e (foto)sensibile che va maneggiata con cura, meditata e ben plasmata – inutile uscire per solo mercimonio quando non si hanno buone idee. Idea buona, ben scritta e anche meglio filmata è certamente quella di Caro Diario, nonostante la sua apparente forma estemporanea: film documento diviso in tre capitoli e fatto di poche cose quotidiane, che mette in scena una sorta di pellegrinaggio del suo autore in tanti luoghi diversi – materiali come allegorici – tutti specchio paradigmatico di quelli comuni della società italiana contemporanea.

Il ventennale di un’opera del genere spinge a inevitabili riflessioni, oltre che sul merito del suo referente primario – la nostra società, appunto -, anche sullo stato attuale della produzione cinematografica italiana. Il suo procedere per tappe e persone, luoghi ed episodi quasi autarchici e in sé conclusi, fornisce in proposito molti spunti. Si direbbe – come in effetti lo è – fatta apposta.

Nel primo capitolo (In Vespa) vediamo Nanni che, dopo aver scritto sul diario che c’è una cosa che gli piace fare più di tutte, girovaga in vespa attraverso una Roma estiva e semideserta. Passa nei quartieri della Garbatella, di Spinaceto, di Casalpalocco commentandone le architetture e criticando gli usi comuni degli abitanti. Dichiara il suo amore non ricambiato per il ballo e incontra Jennifer Beals in compagnia del marito (che definisce Nanni “whimsical, quasi scemo”), si rammarica per la scarsa qualità dei film in sala e finisce la sua corsa all’Idroscalo, nel luogo dove è stato ucciso Pasolini.

Nel secondo capitolo (Isole) Nanni si reca all’arcipelago delle Eolie, dove a Lipari si è rifugiato l’amico Gerardo (Renato Carpentieri), che non guarda la tv da anni e studia solo l’Ulisse di Joyce. In sua compagnia compie il giro delle isole: a Lipari c’è più caos che a Roma. A Salina le famiglie sono dominate dai figli unici, e Gerardo riscopre la tv, diventando fan della soap Beautiful e di Chi l’ha visto? Poi a Stromboli, dove minacciosa si avverte la presenza del vulcano, il sindaco (Antonio Neiwiller) li accompagna per l’isola in cerca di alloggio, ma nessuno li vuole ospitare. In vetta allo Stromboli, Gerardo obbliga Nanni a chiedere a dei turisti americani notizie fresche sugli sviluppi di Beautiful. Poi il sindaco li saluta canticchiando il motivo “Sean Sean” di Giù la Testa (S. Leone, 1971). Da Panarea scappano subito prima di venire coinvolti in una festa in stile radical chic, new age e/o altre simili balle. Infine ad Alicudi, l’isola più isola, non c’è elettricità e acqua calda. I due sono attesi da Lucio (Moni Ovadia), scrittore autoesiliatosi per scontare la troppa fama. Qui c’è finalmente calma, Nanni può lavorare al suo film e Gerardo scrivere una lettera al Papa, in cui si lamenta per la scomunica delle telenovela. Alla fine Gerardo, in crisi di astinenza da comodità mediatiche e non, riprende da solo il traghetto urlando “la tv fa bene, specialmente ai bambini: sostituisce quello che un tempo erano le fiabe e le leggende narrate attorno al camino”.

Nel terzo e ultimo capitolo (Medici) Nanni racconta la vicenda della sua malattia – il curabile tumore di Hodgkin scambiato per dermatite allergica – premettendo “nulla di questo capitolo è inventato”. Alla fine affida la morale della faccenda al caro cine-diario, dicendo che i medici parlano bene ma non sanno ascoltare, e che bere un bicchiere d’acqua prima di colazione fa bene.

Per la prima volta Moretti smette i panni dell’alter ego Michele Apicella (cognome della madre), sotto il cui nome, ma con spoglie sempre diverse, ha recitato in tutti gli altri film precedenti, tranne che nell’intenso La Messa è Finita (1985). Scompare Michele e rimane solo Nanni, proprio lui in veste di se stesso. Ma un se stesso in quanto autore di cinema e intellettuale che consapevole guarda al presente sociale (“voi dicevate cose orrende e voi siete invecchiati, io dicevo cose giuste ed ora sono uno splendido quarantenne”), e non in quanto privato cittadino.

I vari momenti del suo peregrinare vanno quindi visti soprattutto in chiave paradigmatica, cioè non è semplicemente lui, Nanni Moretti, di fronte ai dati sociali, ma lui come figura esemplificativa dell’autore di cinema in genere (ma italiano) di fronte agli stessi dati. Il suo sguardo sulle cose è quindi quello del cinema. Così, la Roma deserta e anonima del primo episodio esemplifica la sofferenza e la solitudine della società contemporanea. Il girovagare tra le isole (“solo nel tragitto tra un’isola e l’altra sono felice”), che lo porta in una società incapace di comunicare, definisce come ogni isola – appunto – diventi metafora di un mondo diviso in pezzi autoctoni, l’uno indifferente all’altro. Infine, l’esperienza tragica della malattia pone lui, e lui tramite il cinema pone noi, di fronte alla sofferenza del corpo come simbolo di un mondo in cui si è perso il senso delle cose.

Ma, soprattutto, Caro Diario innesta in una seconda ma non meno chiara lettura un discorso sul cinema italiano contemporaneo, rovinato dalla diffusione delle tv commerciali; una sorta di rivoluzione socio-culturale al rovescio, fondamentale per spiegare l’Italia degli ultimi vent’anni (vedasi situazione politica del dopo tangentopoli). E allora abbiamo l’amico Gerardo, intellettuale che cita i vari Ensensberger e Popper per dire che “la tv trasmette il nulla” per poi, una volta guardata, rimanerne anestetizzato. Oppure la gita sullo Stromboli, dove Nanni ancora per conto dell’amico Gerardo infervorato di telenovela, chiede ai turisti americani anticipazioni sulla saga diBeautiful. Cioè: un autore come lui è costretto a una cosa del genere, negli anni Novanta, nei luoghi dove i maestri del neorealismo quarant’anni prima inscenavano alcuni dei loro migliori film (Stromboli Terra di Dio, R. Rossellini, 1949; La Terra Trema, L. Visconti, 1948; in un luogo diverso ma similmente spoglio Antonioni girò l’inizio de L’Avventura, 1960): sottile metafora, quindi, sul difficile destino del cinema italiano alle prese con il mutato gusto dello spettatore, indotto dalla tv commerciale. E ancora, nel primo capitolo, l’arrabbiatura per film come Hanry Pioggia di Sangue (J. McNaughton, 1986), per la banalità stilistica e di contenuti di certi film italiani contemporanei, o quando strapazza – forse in sogno – il critico cinematografico (Carlo Mazzacurati) che scrive stupidaggini come “pus underground”.

In questo senso, lo struggente finale del primo capitolo, quando la mdp segue Nanni fino all’Idroscalo, e poi si ferma con lui a guardare il monumento fatiscente eretto nel luogo dove Pier Paolo Pasolini venne ucciso – che per quanto esposto possiamo considerare come il nume tutelare del film, fautore di un cinema di “infinito amore per la realtà” – rappresenta un omaggio al buon cinema italiano ormai quasi scomparso, sommerso dalle banalità televisive di un Paese che sembra aver di esso perso ogni memoria.

Invece Caro Diario ricevette al Festival di Cannes del 1994 il premio per la miglior regia dalla stessa giuria, presieduta da Clint Eastwood, che diede la Palma d’Oro a Pulp Fiction di Tarantino. Giusto riconoscimento al lavoro dell’unico autore italiano della terza generazione, la successiva per anagrafe a quella di cui lo stesso Pier Paolo Pasolini è stato un illustre esponente.