“E il profeta disse: la bestia guardò il volto della bella, e non riuscì ad ucciderla. Da quel giorno la bestia fu come morta.” Comincia con questa citazione, presa da un antico proverbio arabo, il primo King Kong uscito nel marzo del 1933 negli Stati Uniti. All’epoca si era ancora agli inizi del cinema narrativo e di genere, il grande pubblico si andava abituando al nuovo linguaggio delle immagini: il racconto inverosimile, fantastico, dai contenuti orrorifici e/o meravigliosi – etimologicamente inteso – doveva essere preventivamente introdotto e spiegato allo spettatore, a volte con iperboli da imbonitore da fiera. Infatti, nei due successivi remake, sia in quello del 1976 come in quello del 2005, la citazione esplicativa manca del tutto, resa superflua dalla progressiva emancipazione linguistica del pubblico.
Remake – entrambi – invero poco interessanti, e meno graditi agli spettatori rispetto a quanto sperato dai loro produttori. Il film del 1933, invece, riscosse un immediato gigantesco successo, tra i più ampi di sempre al botteghino. Per sagacia del soggetto e qualità tecnica degli effetti speciali, notevole per l’epoca, è da considerarsi ancora oggi uno dei massimi capolavori del genere fantastico. L’idea base di King Kong nacque da una curioso episodio: un esploratore scientifico del Museo di Storia Naturale americano era rientrato da un’isola dell’estremo oriente portando con sé il più grande rettile vivente mai visto, ivi scoperto, catturato e poi esposto al museo. Il regista e sceneggiatore Merian C. Cooper pensò allora di mettere in scena una storia simile, sostituendo il viscido e poco affascinante rettile con un più nobile primate, versione gigante del nostro – dicono – parente evolutivo più prossimo.
Cooper trasse ispirazione anche da The Lost World (Il Mondo Perduto) del 1925, la prima trasposizione cinematografica, inedita in Italia, dell’omonimo romanzo fantastico, avventuroso e “di dinosauri” di Arthur Conan Doyle (1912). Quindi il regista, coadiuvato dal mago degli effetti speciali Willis O’Brien, realizzò una sequenza di prova da mostrare ai produttori della RKO, che entusiasti del risultato diedero il via libera finanziario al progetto.
Fin dai titoli di testa l’intento del film è abbastanza chiaro: il gorilla gigante compare tra gli attori dell’imminente spettacolo, chiamato per nome e cognome e definito “l’ottava meraviglia del mondo”. Poi via, c’è una nave in partenza da un molo, tra le nebbie serali due persone ne parlano, apprendiamo che a bordo il famoso documentarista e produttore Carl Denham sta organizzando una spedizione verso la misteriosa Isola del Teschio, a est di Sumatra. Ha con sé la giovane bionda attrice Ann Darrow, eroina della situazione. Giunti sull’isola, la troupe di Denham e gli ufficiali della nave hanno un primo teso contatto con gli indigeni, intenti a un misterioso rito tribale. Gli stranieri sono da questi poco graditi, quindi tornano sulla nave. Ma durante la notte gli indigeni rapiscono Ann, nell’intento di offrirla in sacrificio al dio dell’isola, il gigantesco gorilla Kong.
Richiamato dal rullo dei tamburi, Kong appare in tutta la sua paurosa magnificenza, rimane colpito dalla bellezza della ragazza, quindi anziché ucciderla la porta con sé nella giungla. Il capitano della nave organizza allora una spedizione alla ricerca di Ann, al termine della quale il primo ufficiale John Driscoll riuscirà a strapparla alla bestia. Kong, allora, uscito dalla giungla in cerca della ragazza, viene catturato dalla troupe di Denham.
A New York il gorilla gigante è mostrato da Denham in un teatro di Broadway, presentato come “l’ottava meraviglia del mondo”. Ma durante la prima esposizione, Kong innervosito dai flash dei fotografi rompe le catene e fugge, seminando il panico per la città. Trovata Ann, la rapisce nuovamente e si rifugia con lei sul pennone dell’Empire State Building, dove viene abbattuto da una pattuglia di aerei.
La storia si presenta come una sapiente miscela di elementi avventurosi, fiabeschi, fantastici e di velato erotismo esotico. Affiorano qua e là nella sceneggiatura, soprattutto nell’incipit e nelle sequenze dentro la giungla, i migliori topos del racconto d’avventura con valenze allegoriche e del gotico-fantastico ottocentesco (“L’Isola del Tesoro”, ma anche “Moby Dick”, il già citato “Il Mondo Perduto”, ma anche il Conrad di “Cuore di Tenebra”). Ma King Kong non è solo la trasposizione cinematografica della fiaba orientale della bella e la bestia, sapientemente mixata con i richiamati elementi del fantastico avventuroso, di grandissimo fascino popolare. Soprattutto nella sua prima versione del 1933, anzi forse solo in quella, vi si legge in filigrana un’acuta critica al mondo dello spettacolo, ai suoi limiti e pericoli.
La riflessione, in particolare, verte sull’universo divistico hollywoodiano. Non è un caso che la spedizione sull’isola sperduta sia guidata da un regista di documentari esotici nonché produttore, che poi, ritornato alla civiltà con la magnifica preda, la mostri a un pubblico pagante legata sul palco di un teatro. Legare, vincolare, imporre regole, costringere in un contratto, e poi mostrare. Ma la bestia si libera dai vincoli, rompe le catene, ritorna se stessa e si sbrana il pubblico, prima di essere nuovamente soppressa dalla civiltà.
Il cinema è finzione, spesso è veicolo di metafore o allegorie, di visioni meravigliose od orrorifiche. Non stupisce quindi che gli effetti visivi di King Kong, innovativi e perfettamente mimetici all’epoca, ma rudimentali ed evidentemente falsi ai nostri occhi, comunque mantengano il film, anche dopo ottant’anni, su un elevato standard di fascino visivo; ancora sappiano brillantemente mostrarci l’aspetto fantastico, magico e, specialmente nella sequenza della palude nella giungla, surreale di questo magnifico racconto.