Ricorda Ingrid Bergman che «[o]gni giorno giravamo a braccio. Ogni giorno ci davano i dialoghi e cercavamo di capirci qualcosa. Nessuno sapeva dove andasse a parare il film e nessuno sapeva come sarebbe andato a finire, il che non aiutò nessuno di noi nelle caratterizzazioni. E io per tutto il tempo mi sono chiesta di chi dovevo essere innamorata, se di Paul Henreid o di Humphrey Bogart… “Non lo sappiamo ancora, giocatela bene, fai una cosa intermedia…”. Non osavo guardare Humphrey Bogart in modo amorevole perché poi avrei dovuto guardare Paul Henreid in un modo che non fosse amorevole». Aggiunge il romanziere (e biografo di Bogart) Jonathan Coe che «[o]gni giorno Hal Wallis [una delle figure leggendarie di Hollywood e dal 1928 produttore esecutivo della Warner Bros., ndr] si presentava sul set e litigava col regista, Michael Curtiz, il quale aveva lunghi battibecchi con Bogart e sprecavano ore e ore di riprese a decidere come diavolo avrebbero recitato scene che gli erano state consegnate solo la mattina stessa. A ora di pranzo Bogart si ritirava nel camerino con Howard Koch [sceneggiatore scritturato dalla Warner Bros. nel 1940 e coinvolto in una prima fase di sistemazione dello script, ndr] per discutere i particolari della caratterizzazione di Rick. Koch gridava e se la prendeva con Curtiz perché aveva introdotto altri scrittori che avevano manomesso la logica del “suo” copione, e la famosa replica di Curtiz fu: “Non preoccuparti di cosa è logico e di cosa non lo è. Io faccio andare tutto così veloce che nessuno se ne accorgerà”».

Due testimonianze che – allora come oggi – non farebbero certo la felicità di nessun responsabile di una qualsiasi casa di produzione cinematografica, né tantomeno la fortuna di un film ancora in fase di lavorazione. Eppure, anche se emergendo da una situazione di partenza così travagliata, settant’anni fa, tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943, con la Seconda guerra mondiale in pieno svolgimento, usciva nelle sale americane una pellicola destinata a diventare uno dei melodrammi sentimentali più famosi del cinema: Casablanca. Una celebre “storia d’amore” che è soprattutto un esemplare percorso di presa di coscienza e di sacrificio sia individuale che collettivo, un film dato per saputo, “scontato” ma nel quale se un’azione si decide o la trama ha una svolta, di mezzo c’è sempre un bicchiere (o più di uno) pieno o vuoto che o non viene toccato o si rovescia o si risistema o si beve, a richiamare non poi tanto sotterraneamente la storia – più lontana nel tempo ma non per questo meno vicina e viva – di un calice che chiunque avrebbe allontanato da sé e che, in un preciso momento nella Storia, Qualcuno ha consumato per tutti e del quale proprio in questi giorni siamo invitati a fare memoria. Ma andiamo con ordine.

Le vicende narrate si svolgono in una manciata di giorni a partire dalla sera del 2 dicembre 1941 (data riportata su una ricevuta la cui firma segna l’apparizione del personaggio interpretato da Humphrey Bogart, impegnato – accanto a un bicchiere vuoto – in una solitaria partita a scacchi) nella città dell’allora Marocco francese sotto la giurisdizione del governo di Vichy del maresciallo Pétain, dove si incrociano le strade di quasi tutti coloro che cercano di raggiungere Lisbona per imbarcarsi da lì per gli allora non belligeranti Stati Uniti, lasciandosi alle spalle l’Europa ormai quasi interamente sotto il tallone della Germania nazista. L’americano Richard Blaine (Bogart) è il proprietario del famoso “Rick’s Café Américain”, dove si aggira gente di ogni provenienza: è una specie di zona franca nella quale si incrociano eventi grandi e piccoli, amori presenti e passati, ideali e disincanto.

Si trovano a passare quella sera anche il patriota cecoslovacco Victor Laszlo (Henreid) e sua moglie Ilsa Lund (Bergman), amata tempo addietro a Parigi da Rick prima che lei decidesse di uscire improvvisamente dalla sua vita. Quest’ultimo si è nel frattempo creato la fama di uomo cinico, amorale, “isolazionista” («Io non mi impiccio per nessuno»; «Ora non combatto più per niente se non per me. Sono la sola causa che mi interessa»), degna metafora della propria nazione, in quel momento ancora neutrale sulla scena bellica. Ma l’arrivo di Ilsa da oltre quella “cortina” dove aveva provato a seppellirne il ricordo («Con tanti ritrovi in tutte le città del mondo, doveva venire proprio nel mio!») segna per Rick l’inizio di un cammino di cambiamento nel quale è facile scorgere anche quello del Paese di appartenenza.

Dopo il prologo già citato, egli assiste impassibile all’arresto di Ugarte (Peter Lorre) – che come tanti profittatori cerca di contrabbandare dei visti di transito per uscire da Casablanca – e a riaffermare questa sua posizione di “politica estera” lo vediamo rimettere a suo posto un bicchiere che si era rovesciato su uno dei tavoli in seguito alla violenta colluttazione coincisa con il fatto: il calice non è ancora pronto a essere sparso, consumato. E come questo, dopo quello vuoto iniziale accanto agli scacchi, ce ne saranno ancora altri a segnalare il suo percorso fino al famoso finale all’aeroporto («Grazie per la vostra lealtà. E bentornato alla lotta: ora so che la nostra parte vincerà» sono le ultime parole di Victor Laszlo). Non senza essere prima passato attraverso il severo ma quanto mai veritiero vaglio di entrambi gli eroici coniugi europei: «Sapete a chi somigliate? A un uomo che vuole convincere se stesso di qualcosa in cui non crede. Ognuno ha un destino. Buono o cattivo che sia. […] Si direbbe che cerchiate di sfuggire a voi stesso. Non ci riuscirete».

Pur nella (o forse verrebbe da dire grazie alla) confusione produttiva da cui è nata questa pellicola e da cui siamo partiti, non rappresenta però un semplice caso la non poi troppo velata metafora del sacrificio statunitense per il mondo in guerra rappresentato attraverso un’iconografia che ha echi esplicitamente cristiani: il film figura infatti tra quelli girati a Hollywood in un periodo nel quale la “fabbrica dei sogni” cercava di non restare insensibile ai tragici avvenimenti del tempo e venne realizzato nell’ambito di un accordo tra la Warner Bros. e il War Office of Information (WOI), quindi immettendo in questa ormai proverbiale trama sentimentale anche un valore patriottico aggiunto.

E tra tutti questi calici, non poteva non trovare spazio anche uno dei più famosi brindisi che la galleria del cinema ricordi: «Here’s looking at you, kid». Un piccolo “effetto/affetto speciale” incastonato dentro un più ampio e memorabile “effetto/affetto speciale”, un altro di quei non pochi aspetti realmente meravigliosi della settima arte.