“Non avrei girato il film se si fosse trattato di avvoltoi o uccelli da preda; quello che mi è piaciuto è che si trattava di uccelli comuni, di uccelli di tutti i giorni”. Così si esprimeva Alfred Hitchcock a proposito de Gli Uccelli, suo abilissimo adattamento cinematografico dell’omonimo racconto di Daphne Du Maurier, uscito nelle sale americane cinquant’anni fa, il 28 marzo del 1963. Il passaggio, tratto del celebre libro intervista con Francois Truffaut, spiega perfettamente l’idea base del film: Hitchcock ha soprattutto inteso mettere in scena una visionaria riflessione sull’angoscia che può nascere dal quotidiano.

Gli Uccelli è quindi un thriller fantastico e orrorifico, unico del genere in tutta la carriera del regista, di rara intensità emotiva, basato per buona parte del suo sviluppo sulle tre unità della tragedia classica: di luogo, di tempo e di azione. Scelta strutturale e drammaturgica, questa delle tre unità, tipica del cinema di Alfred Hitchcock, che serve al regista per amplificare al massimo grado la tensione e l’inquietudine della vicenda. La colonna sonora, priva di musiche e composta solo da rumori e dalle grida ritmate degli uccelli, di intensità proporzionale alla dimensione degli stessi nell’inquadratura, fa poi il resto.

In un negozio di animali in San Francisco, la giovane e ricca nullafacente Melanie Daniels (Tippi Hedren) si fa passare per una commessa agli occhi del bell’avvocato Mitch Brenner (Rod Taylor), che però la riconosce. Invaghitasi di lui, decide di portargli a domicilio una coppia di pappagallini inseparabili, nell’isolato paese di Bodega Bay dove vive con la famiglia. Qui, tra gli screzi con la possessiva madre di Mitch e le confidenze con l’ex fidanzata di lui, maestra di scuola, rimarrà alla fine vittima, come tutta la popolazione del luogo, della rivolta apocalittica degli uccelli contro il genere umano.

Il film comincia come una commedia sentimentale, secondo l’usualissimo espediente hitchcockiano del “darla da bere” allo spettatore, e si trasforma via via in una sorta di cupa allegoria sul destino del creato ai tempi – siamo nel 1963 – della psicosi nucleare, dimostrando ancora una volta le abilità narrative e visive del suo autore. Alla fine gli uccelli occupano sempre di più gli spazi scenici e le inquadrature. Nessuna spiegazione sul loro comportamento viene fornita, volutamente, da Hitchcock, così che l’interpretazione tematica rimane aperta a più scenari possibili. L’esegesi del testo filmico può allora spaziare dal sociale all’ecologico, dal politico al religioso senza remore apparenti.

Allontanandoci dal film per compiere un rapido escursus – a volo d’uccello – sul cinema di Alfred Hitchcock, un corpo di opere vasto ma stilisticamente compatto, la prima cosa che si nota è la sua adesione quasi totale a un solo genere: il giallo, spesso definito “thriller” nella sua variante cinematografica. Perciò la critica ha per anni relegato Hitchcock tra i registi commerciali e di genere, quindi sottovalutato, quando non ignorato o addirittura vilipeso. Dalla sua rivalutazione, inaugurata sul finire degli anni Cinquanta dai giovani cineasti della rivista francese “Cahiers du Cinema, è emerso invece un aspetto fondamentale: Hitchcock è stato innanzitutto “uno dei più grandi inventori di forme di tutta la storia del cinema”.

Dentro il fittizio predominio della narrazione di genere, egli disegna tutti gli elementi formali al fine di smentire la leggibilità del racconto e spostare il focus del suo cinema dall’azione allo sguardo. Nei suoi film abbondano scene dai colori forti e irreali, o dal bianco e nero di taglio espressionista, scenografie visibilmente finte; spicca il disinvolto utilizzo dei “trasparenti” nelle riprese di movimento. Si trovano profondità di campo eccessiva o totalmente assente, inquadrature a volte effettuate da molto lontano o da molto vicino, sicché somiglino per pochi istanti a quadri di pittura metafisica o astratta.

Si può quindi arrivare a dire che la sua intera opera, al di sotto del racconto, abbia per tema il cinema stesso. Il cinema nella sua essenza di sguardo, di immagine fittizia, di doppio, di contrasto tra punti di vista, di specchio rivelatore inteso come mezzo espressivo che scopre e poi copre di nuovo (ri-velare). Per Gli Uccelli tutto questo è per lo più vero in relazione al tema apocalittico del film: piccoli indizi visivi nella messa in scena e nel decoupage ci segnalano fin da subito, e sempre più man mano che la storia avanza, che ci dobbiamo aspettare qualcosa di molto diverso rispetto al finale consolatorio di una normale commedia mondana.

Così, se La Finestra sul Cortile (1954) e La Donna che Visse Due Volte (Vertigo, 1958) sono i capolavori visivi, Notorius (1946) e Intrigo Internazionale (1959) sono gli intrecci più riusciti basati sui migliori pretesti narrativi della carriera (quello che il regista definiva MacGuffin), se Psycho (1960) è il grande successo, il film di Hitchcock che tutti conoscono, Gli Uccelli è quella speculazione visiva sull’angoscia che rappresenta il testamento cinematografico del suo autore. Un capolavoro di atmosfere gotiche capovolte, dipanate in spazi aperti e sinistramente variopinti. Il destino del mondo in technicolor, secondo sir Alfred Hitchcock.