«La prima immagine ritornava sempre: la stanza rossa con le donne vestite di bianco. Succede che alcune immagini ritornino in modo ostinato, senza che io sappia che cosa vogliono da me. Poi scompaiono, ritornano di nuovo e sembrano sempre le stesse. Quattro donne vestite di bianco in una stanza rossa […] La scena ora descritta mi ha accompagnato per un anno intero. All’inizio non sapevo naturalmente come si chiamassero le donne e perché si muovessero nella grigia luce del mattino di una stanza con tappezzeria rossa. Avevo di volta in volta respinto questa immagine e rifiutato di porla alla base di un film (o ciò che è ora). Ma l’immagine si è dimostrata ostinata e io, malvolentieri, l’ho identificata: sono tre donne che aspettano che la quarta muoia. La vegliano a turno».

Così scrive nel 1991 Ingmar Bergman (1918-2007) nel suo Bilder (edito l’anno successivo in Italia da Garzanti con il titolo Immagini), nel quale il cineasta ripercorre la sua parabola artistica, ricostruendo la genesi e la realizzazione di tutti i suoi film, tra i quali anche quello il cui “incipit” è qui descritto e poi diventato, una volta messo su pellicola, una delle sue opere di maggior successo a livello internazionale e da egli stesso considerato – insieme a Persona (1966) – il «punto massimo a cui posso arrivare, dove in tutta libertà tocco segreti senza parole, che solo la cinematografia può mettere in risalto»: Sussurri e grida (Viskningar och rop), presentato fuori concorso proprio quarant’anni fa, nel maggio 1973, alla 26ª edizione del Festival di Cannes.

Se per il regista, sceneggiatore e critico cinematografico Olivier Assayas «[è] un film che, dall’inizio alla fine, si sviluppa là dove in genere il cinema non riesce ad entrare, un film come un respiro, che passa, ci pervade senza che si deflori la sua grazia e il suo mistero, per sparire senza rumore, lasciando il mondo trasformato», Sussurri e grida (da molti considerato un implicito rinvio a una frase del profeta Geremia: «Quando le grida e i sospiri saranno passati») si presenta come una chirurgica vivisezione di quattro anime femminili, una potente riflessione – attraverso il mistero della sofferenza e della morte – sul senso dell’esistenza e sulla “capacità” della felicità qui e ora, anche se, come è stato scritto, «il potere di coinvolgimento, il fascino della limpidità e la pregnanza dei significati è tale da sconcertare i tentativi di analisi. È un film che va visto, rivisto e vissuto. La parola critica di fronte a una simile sovranità espressiva tocca il fondo della sua inadeguatezza e non può se non limitarsi a proporre spunti di lettura di cui ripetute visioni del film ci confermano la parzialità e l’insufficienza».

A ogni modo rappresenta, per rigore e lucidità, non tanto un pugno allo stomaco quanto una stilettata al cuore degli spettatori che si consuma in poco meno di novanta minuti, aperti da ossessive panoramiche ravvicinate e dettagli sugli orologi che rintoccano le ore nella villa di campagna dove scopriamo che si sta spegnendo per un male incurabile la giovane Agnes (Harriet Andersson): «È lunedì mattina presto e sto soffrendo» sono le prime parole umane in cui ci è dato di imbatterci, vergate sul proprio diario dalla stessa moribonda, la quale è accudita a turno dalle due sorelle, la gelida Karin (Ingrid Thulin) e la superficiale Maria (Liv Ullman), e dalla domestica, l’amorevole e solerte Anna (Kari Sylwan), sulle esperienze delle quali si sofferma il resto del film, ivi compresa una sequenza di “resurrezione” paragonabile a quanto solo Dreyer aveva osato nel memorabile finale del suo Ordet (1955).

Una sontuosa sinfonia a colori visivamente straordinaria – opera magistrale del fidato operatore Sven Nykvist, premio Oscar 1974 per la migliore fotografia e futuro collaboratore, tra gli altri, di Roman Polanski, Louis Malle, Woody Allen e Andrej Tarkovskij – dove dominano i colori bianco e rosso (questo perché, sempre secondo il regista svedese, «fin dalla fanciullezza mi sono immaginato la parte interna dell’anima come una patina umida in sfumature rosse») e il cui unico commento musicale è rappresentato dalla Sarabanda della Suite n. 5 in do minore per violoncello solo BWV 1011 di Bach, che genialmente viene utilizzata per “dare voce” alle parole di Karin e Maria in occasione del loro fugace riavvicinamento, e dalla Mazurka in la minore op. 17 n. 4 di Chopin, che – legata inizialmente alla sequenza dedicata al ricordo della madre da parte di Agnes («Penso sempre alla mamma. Quasi ogni giorno. Anche se è morta da vent’anni. Spesso cercava pace in giardino. Io la seguivo a distanza. La spiavo, ma senza intenzione. Solo perché le volevo bene ed ero gelosa. Le volevo bene perché era dolce, bella e viva. Perché faceva sentire la sua presenza») – chiude il film nel momento in cui Anna, ormai rimasta sola nella villa e in procinto di abbandonarla per sempre, sfoglia le prime pagine del diario della defunta, quando ancora la malattia le permetteva di passeggiare nel parco antistante in compagnia delle altre tre donne: «I dolori erano spariti. Le persone che amavo di più al mondo erano lì. Potevo sentirle chiacchierare. Sentivo la presenza dei loro corpi, il calore delle loro mani. Volevo aggrapparmi a quel momento e pensai: “Qualunque cosa accada, questa è la felicità. Non posso volere niente di più. Ora posso assaporare la perfezione per qualche attimo. Sento di dover essere grata alla mia vita che mi dà tanto”». 

A proposito di una delle scene citate, nelle sue preziose e toccanti Lezioni di regia – un testo finora inedito e da poco raccolto in La forma dell’anima. Il cinema e la ricerca dell’assoluto (Rizzoli, 2012) – il già menzionato Andrej Tarkovskij (1932-1986), afferma che «nel film di Ingmar Bergman Sussurri e grida c’è un episodio che mi viene spesso in mente. Due sorelle, dopo aver fatto ritorno alla casa paterna dove sta morendo la loro terza sorella, rimaste sole, sentono a un tratto il riaffluire di un’intimità familiare, il tendersi dell’una nei confronti dell’altra, un’intimità che non sospettavano neppure di avere fino a quel momento. Subito nasce la sensazione struggente di un’umanità ridestata, che tanto più emoziona poiché nei film di Bergman momenti come questi sono fugaci e passeggeri. Nei suoi film le persone cercano ma non riescono a trovare dei contatti. In Sussurri e grida le sorelle non riescono comunque a perdonarsi a vicenda, non riescono a rappacificarsi nemmeno di fronte alla morte di una di loro. Ma quanto più si torturano e si odiano a vicenda, tanto più acuta e strabiliante è l’impressione prodotta dallo slancio della loro anima. Inoltre, al posto delle battute, Bergman qui ci costringe ad ascoltare la Suite per violoncello di Bach, che comunica a tutto ciò che accade sullo schermo una profondità e uno spessore particolari; attribuisce un carattere persuasivo e convincente allo sforzo del regista nell’esprimere, qui inequivocabilmente quel principio positivo che di solito si coglie appena nei suoi film austeri e dolorosi. Grazie a Bach e alla rinuncia alle battute dei personaggi, sulla scena si è generato come un vuoto, una sorta di spazio libero, nel quale lo spettatore ha percepito la possibilità di riempire un vuoto interiore, di sentire il respiro dell’ideale. Lasciamo pure che in Bergman questo sia il segno di ciò che non può esistere. Ma se lo spettatore riceve comunque anche un minimo sostegno alla speranza, allora si apre per lui la possibilità di una catarsi, di una purificazione spirituale; di quella liberazione morale che l’arte è chiamata a risvegliare».

Da “autore” ad “autore”, pur al di là – come riconosciuto dallo stesso Tarkovskij – delle reali intenzioni della poetica bergmaniana nello specifico frangente e più in generale nel film in questione, mette davvero ancora i brividi della prima visione anche solo il ripensare questa sequenza – tra le molte mirabili di questo struggente capolavoro – così come riletta alla luce della propria sensibilità ed esperienza, tentando di sondarla nelle sue profondità e verità, da un altro grandissimo poeta della macchina da presa.