È notizia di questi giorni che in occasione della prossima edizione del Festival del film di Locarno – la numero 66, in programma dal 7 al 17 agosto – il regista, sceneggiatore, produttore, scrittore e attore tedesco Werner Herzog, nato a Monaco di Baviera il 5 settembre 1942 come Werner H. Stipetic (il “Duca” del cognome attuale è solo uno pseudonimo), sarà premiato in Piazza Grande con il Pardo d’onore. Per celebrare il riconoscimento, la kermesse ticinese proporrà una retrospettiva costituita dalle dieci pellicole più rappresentative dell’autore più enigmatico e visionario del cosiddetto “Nuovo Cinema Tedesco”, movimento sorto sotto l’egida del documento letto in conferenza stampa da alcuni giovani registi il 28 febbraio 1962 in occasione dell’ottava edizione del Festival del Cortometraggio di Oberhausen, che segnala convenzionalmente l’emergere di una nuova schiera di autori in quella che era stata la patria sia della fervida stagione espressionista che della tragica parabola nazionalsocialista.

Anche se la carriera del bavarese ha inizio nel 1962 (nel 1968, considerando l’uscita del suo primo lungometraggio), la vera svolta giunge però a un altro Festival, per l’esattezza quello di Cannes di quarant’anni fa, dove il 16 maggio 1973 presenta nella sezione “Quinzaine des Réalisateurs” un’opera destinata a restare nella memoria di diversi “addetti ai lavori” (Francis Ford Coppola, ad esempio, la indica come una delle decisive fonti di ispirazione di Apocalypse Now): stiamo parlando di Aguirre, furore di Dio (Aguirre, der Zorn Gottes, 1972), il primo successo internazionale del trentenne, autodidatta e “irregolare” Herzog.

Ecco come ne parla un testimone d’eccezione quale il nostro Gianni Amelio: «Tra i cineasti degli ultimi trent’anni nessuno si è messo fisicamente al servizio di imprese difficili o disperate come le sue; nessuno, per un film, si è giocato la pelle. Mi ricordo nel 1973, a Cannes, le facce degli spettatori dopo la proiezione di Aguirre, furore di Dio. Non eravamo impressionati solo dalla forza del film, ma la questione era: come diavolo avrà fatto a girarlo, quale prezzo avrà pagato (escludendo i soldi, perché era giovane e di scarse finanze) per costringere tutti gli altri ad andargli dietro? La risposta è scontata. In Herzog non c’è soltanto, come per ogni narratore, quell’ovvio punto di identificazione che permette, diciamo così, di “entrare nel personaggio” e raccontarlo con cognizione di causa. […] Anche se hanno un nome e un cognome “reali”, quelle figure non sono che pretesti, identità fittizie con le quali Herzog sceglie di vivere una delle sue tante vite. […] Con Herzog siamo nel bel mezzo di una seduta analitica mascherata, che non può fare a meno della recita, della messa in scena in costume, e dove il pericolo che si sfida durante le riprese non è altro che la molla per confessarsi, la condizione della sincerità».

Una pellicola che è stata variamente interpretata come una simbolica rivisitazione della parabola colonialista europea, un’allucinata epopea sulla brama di potere, un “folle” resoconto dell’epocale incontro/scontro tra Uomo e Natura (come nelle abituali corde del regista, il cui cinema appare – secondo Alberto Barbera – «teso alla ricerca di immagini mai viste o, meglio, viste per la prima volta: territori sconosciuti, mondi che nessuno sguardo umano ha mai sfiorato, non semplicemente per stupire o catturare l’attenzione meravigliata dello spettatore, ma per andare oltre la nostra abituale capacità di vedere, per cogliere ciò che sta al di là dell’apparenza del reale, per superare la soglia che separa la superficie dalla profondità, il già noto dallo sconosciuto e dall’enigmatico, lo stereotipo dalla verità»).

Per cercare di esemplificare tale qualità delle inquadrature herzoghiane, basta provare a soffermarsi sui primissimi minuti del film, una sorta di Riccardo III – l’esploratore e condottiero Lope de Aguirre (interpretato dall’esaltato e claudicante Klaus Kinski e basato, più che sull’omonima figura storica realmente esistita, sul dittatore ugandese John Okello, nome che torna in uno dei personaggi) – ambientato in Amazzonia al tempo dei conquistadores, come ci ricorda la didascalia che lo apre: «Dopo che gli Spagnoli avevano conquistato e saccheggiato il regno degli Inca, gli indios hanno inventato la leggenda del paese dorato El Dorado che si dovrebbe trovare nelle impenetrabili paludi degli affluenti del Rio delle Amazzoni. Alla fine del 1560 una grossa spedizione di avventurieri spagnoli sotto la guida di Gonzalo Pizarro partì dalle montagne peruviane. L’unica testimonianza rimasta della spedizione scomparsa nel nulla è il diario del frate Gaspar de Carvajal».

A seguire una delle sequenze più suggestive della storia del cinema moderno, una serie di campi lunghi e zoom in avanti che “scoprono” tra la nebbia una teoria di uomini in cammino su uno scosceso sentiero accompagnati dalla musica (curata dai Popol Vuh) del coro di un organo e dalla voce narrante: «Il giorno di Natale dell’anno 1560 abbiamo raggiunto l’ultimo valico sulla catena delle Ande e finalmente ci siamo affacciati nella foresta della Terra promessa. Al mattino ho celebrato la Messa, poi abbiamo iniziato a scendere attraverso le nuvole».

Ecco come l’autore stesso di queste immagini – realizzate anche grazie al preziosissimo contributo di Thomas Mauch (1937), fidato operatore e direttore della fotografia di diversi suoi capolavori – ne ha rievocato la realizzazione: «L’idea di alcuni miei film nasce proprio da un paesaggio […]. Per altri registi, come Ingmar Bergman, spesso è il volto di una donna a muovere tutto, le sue storie iniziano a svilupparsi intorno a un volto. Nei miei film spesso l’origine profonda è il paesaggio. […] Fu molto difficile realizzarla. […] Le vertigini nella scena sono davvero qualcosa di molto autentico e, stranamente, ne soffrivano soprattutto i nativi indiani, nonostante vivessero a quattromila e duecento metri di altezza. Dovetti legarne almeno cinque o sei – il sentiero era molto stretto – a cespugli o a rami d’albero, chiedendo loro di sedersi e di non muoversi: saremmo andati a recuperarli alla fine delle riprese. […] Fu un giorno molto caotico e molto faticoso per noi tutti. Salimmo tutti insieme dal fiume per seicento metri in verticale e poi scendemmo giù. Per giorni avevo preparato gli animali e gli equipaggiamenti militari, i movimenti di macchina, i costumi e così via. Avevo lavorato per tre-quattro giorni senza dormire […]. Fu un giorno molto amaro. Kinski che urlava, un gran caos e la necessità di fare ordine in tutta quella confusione. E poi la pioggia e la nebbia fitta che non permetteva di vedere a cinque metri di distanza. Alla fine costrinsi tutti a salire per il sentiero scivoloso: se ne volevano andare, ma dissi loro che il cielo si sarebbe aperto. Non smise di piovere, però, e dovetti legare altre persone perché non cadessero a causa delle vertigini. Feci su e giù per il sentiero cinque o sei volte. Ma quando scesi per l’ultima volta il cielo si aprì e fui molto fortunato».

Tale sequenza rappresenta il significativo avvio di un confronto impari, titanico, destinato al fallimento, nel progressivo avanzare senza una vera direzione e smarrirsi dentro l’immensità di uno spazio non misurabile per l’uomo occidentale, quindi inconoscibile e non dominabile. Ecco perché ci piace pensare come quella presenza tratteggiata da uno degli unici due personaggi femminili del film, Inez de Atienza (Helena Rojo, nota attrice messicana), inghiottita dalla giungla amazzonica nel 1561 («Tutt’a un tratto cambia abito, ma solo per scomparire nella foresta vestita come una regina. […] È il suo abito d’oro. È una regina che sta per scomparire nella foresta») sia poi ricomparsa ancora sul grande schermo, ma a ben altre latitudini con le fattezze di un’adolescente Powatan Algoquian nella Virginia del 1607 in The New World – Il nuovo mondo (2005) di Terrence Malick, che ha sicuramente guardato con attenzione a questa “miracolosa” lezione herzoghiana.

«Come sia riuscito a realizzare questo film e a sopravvivere, rimane un mistero»: il quasi settantunenne regista tedesco non è stato il primo e non sarà di certo l’ultimo a chiederselo, davanti a quanto è riuscito a mettere su pellicola nei 90 minuti di Aguirre.