Il cinema, dalla sua modernità in poi, ha smesso da almeno cinquant’anni di avere lo spettatore come centro del mondo, di servirlo e riverirlo manco fosse un monarca assoluto (anche se gli spettacoli di cassetta imperanti nelle sale contigue ai fast-food vorrebbero fortemente farcelo dimenticare), e il regista iraniano Abbas Kiarostami – Dio lo benedica – pare nato per ricordarcelo a ogni occasione. Esempio lampante ne è il suo ultimo lavoro Qualcuno da Amare, titolo italiano che non rende appieno il senso dell’originale Like Someone in Love, film sulla fragilità esistenziale nell’era globale appena uscito nelle nostre sale, con un colpevole anno di ritardo, grazie alla Lucky Red del buon Andrea Occhipinti.

Il film narra – si fa per dire – di un singolare incontro tra un anziano professore universitario in pensione e una giovane studentessa che, si intuisce tra le volute lacune del racconto, si prostituisce, forse per noia o forse per necessità economica. I due si fanno compagnia per un po’, parlano del nulla, viaggiano in auto, incontrano il geloso fidanzato di lei all’oscuro delle sue attività notturne. Non succede più o meno nulla. Tutto è già avvenuto prima dell’inizio del film, quello che succede durante, ammesso che accada, è lasciato nel fuori campo, nel non guardato dalla macchina da presa, quindi non al centro focale del racconto.

Anche nel vorticoso e inatteso crescendo drammatico finale, quando il fidanzato di lei, che ha scoperto tutto, vorrebbe farla pagare al professore, l’azione è lasciata fuori dalla porta e oltre la fine del film. Che pertanto verte su altro, in sintesi tematizza in maniera lieve e in istanti, dettagli, momenti, sguardi, brevi vacui dialoghi lo straniamento della società contemporanea globalizzata. La vicenda è ambientata infatti in un Giappone anonimo, quindi potrebbe essere stata filmata ovunque.

“Non è una bugia”, è la prima cosa che la voce fuori campo della protagonista dice all’inizio del film. Kiarostami è uno degli autori contemporanei maggiormente influenzati dal neorealismo italiano, oggi forse l’unico ancora in attività, e in questo film la “teoria del pedinamento” trova il suo oggetto di interesse nelle peregrinazioni notturne e diurne della ragazza. Post-moderna è invece la verbosità eccessiva della prima sequenza, per noi incomprensibile, poiché riferita ad azioni e situazioni preesistenti all’incipit, di cui non siamo a conoscenza, e di cui solo ci viene fornito in seguito un vago accenno. Situazione tipica del teatro dell’assurdo, con l’aggiunta, o l’aggravante, che il dialogo è fatto in parte al telefonino.

Le comunicazioni tramite i media e i devices tecnologici contemporanei sono più volte mostrate interrotte o difficoltose nel film. Come per dire: l’uomo di oggi, il più dotato di mezzi di comunicazione dell’intera storia dell’umanità, non sa più comunicare, è forse il meno comunicativo di tutti i suoi simili preesistiti. Ma anche questo è solo un gioco di istanti nell’incedere piatto del film, poiché Qualcuno da Amare, come tutto il cinema di Kiarostami, non racconta ma mostra senza la pretesa di dimostrare, indica senza la pretesa di teorizzare. Cinema non facile il suo, che lascia intenzionalmente frustrati gli spettatori che, come la vicina di casa spiona del finale del film, vorrebbero saperne di più. Episodio, quest’ultimo, da leggersi come un momento meta cinematografico di rara intelligenza.

Nonostante il regista iraniano non sia un “citazionista”, l’ambientazione giapponese non poteva non portare almeno un eco dal cinema del maestro Yasujiro Ozu: si tratta dell’episodio della nonna della protagonista, che annuncia il proprio viaggio in treno a Tokyo per incontrare la nipote. Quando la ragazza, in viaggio in taxi verso il suo appuntamento, la vede in attesa fuori dalla stazione, il suo sguardo da lontano pieno di lacrime è un momento sinceramente toccante del film, forse l’unico che racconti qualcosa di autentico.

Nel suo insieme, il film risulta così fortemente a-narrativo, e Kiarostami può effettivamente essere considerato l’Antonioni dei giorni nostri. È un cinema che non può e non vuole andare oltre la superficie delle cose, come le luci notturne o il riflesso delle nuvole sui vetri delle auto in cui viaggia la protagonista per spostarsi da un quotidiano nulla a un altro.

Si attribuisce al maestro della nouvelle vague Jean-Luc Godard l’affermazione secondo cui il cinema inizierebbe con Griffith e finirebbe, appunto, con Kiarostami. Qualcuno da Amare comincia con la voce fuori campo della protagonista sopra un inquadratura fissa, forse una sua soggettiva -non risulta chiaro nemmeno questo – insistita sull’interno di un locale qualunque, e termina con lo sguardo della macchina da presa fisso su una finestra col vetro rotto e la tenda bianca abbassata. Come se il cinema, esemplificato qui nei suoi elementi essenziali di sguardo (la finestra) e di sonoro/racconto (la voce, che come già ricordato dice “non è una bugia”) non fosse più adatto a raccontare, cioè a contenere nel suo sintagma universale di base – l’inquadratura – le storie e le persone di oggi, dall’Iran al Giappone, dall’Europa alle Americhe.

Forse che Godard non avesse tutti i torti? Quando, fra una ventina d’anni o poco più, tutti gli autori all’incirca coetanei di Kiarostami avranno smesso di fare cinema, cosa sarà diventato quest’ultimo? Sarà ancora un’istanza narrativo-visiva che – sostanzialmente – funzionerà secondo le regole che Griffith individuò cent’anni fa, ancora in grado di dire poeticamente qualcosa sul mondo a se contemporaneo, oppure ormai, contaminato completamente dal linguaggio della tv e dei videogiochi, si sarà definitivamente trasformato in qualcos’altro?