Si deve al genio dissacrante e sarcastico di Luis Bunuel, del quale ricorre oggi il trentennale della scomparsa, una delle immagini più feroci e celebri della storia del cinema: il taglio dell’occhio, il gesto per eccellenza della poetica surrealista. Una giovane donna è seduta in casa, dalla finestra del terrazzo guarda la luna attraversata da una nuvola che pare una lama, un uomo sullo stesso terrazzo – un giovane Luis Bunuel – fuma a larghe volute e affila un rasoio; raggiuntala si mette in piedi dietro di lei, le allarga le palpebre con una mano mentre con l’altra le taglia l’occhio sinistro in due. È la prima, celeberrima sequenza de Un Chien Andalou (1929), cortometraggio surreale scritto da Bunuel con Salvador Dalì. Incipit fortissimo, immagine sconvolgente che ha il sapore e la portata di una dichiarazione di indipendenza, la risonanza di un urlo di invettiva, stridulo e tagliente, contro il bel cinema hollywoodiano, quello allineato, confortante, divistico, ben organizzato e ancor meglio pettinato.



Il mio cinema sarà come un pugno in un occhio, sarà la rottura delle convenzioni visive e narrative che avete conosciuto finora, che vi sono state imposte dall’industria cinematografica dominante; vorrò mostrarvi il brutto, lo sporco, l’inguardabile e l’inenarrabile; sarete costretti a guardare dentro di voi, nel profondo della vostra psiche, a ripescarci cose che avreste voluto lasciarvi sepolte. Così pare prometterci Luis Bunuel con questo agghiacciante statement per immagini, emblematicamente posto all’origine di tutto il suo cinema.



Nato nel 1900 in Aragona, Spagna, da una famiglia di possidenti terrieri borghesi e cattolici, Bunuel compie gli studi superiori in un collegio di gesuiti a Saragozza, le cui ferree regole gli instillano quell’ateismo e anticlericalismo che saranno uno dei capisaldi di tutta la sua opera. Consegue nel 1924 – anno, guarda caso, del primo manifesto surrealista di Andrè Breton – la laurea in Lettere all’Università di Madrid, dove conosce e frequenta giovani nascenti personalità artistiche quali Garcia Lorca, Salvador Dalì e il poeta Rafael Alberti. L’anno seguente è a Parigi, dove ha i primi contatti con l’avanguardia surrealista.



Nel 1929 scrive e dirige con l’amico Dalì il summenzionato Un Chien Andalou, suo primo cortometraggio, già notevole per chiarezza di intenti e per compostezza visiva. Rubricato dalla critica come “il miglior lascito delle avanguardie storiche nel campo del cinema”, il film è un lavoro fresco e innovativo, che già contiene, sia in forma embrionale che in atto compiuto, un po’ tutto l’universo estetico e poetico del regista spagnolo. Vale a dire: forti sentimenti anticlericali e antiborghesi da un lato, e le poetiche tipiche del movimento surrealista dall’altro. Così, ne Un Chien Andalou sono rappresentati soprattutto lo sguardo nelle parti più profonde della psiche, l’abolizione del confine tra sogno e veglia, l’esaltazione dell’amore folle, l’adozione della poetica dell’occhio come centro di tutto l’universo filmico surrealista. Il taglio dell’occhio diventa allora la crudele metafora sia della penetrazione dello sguardo cinematografico oltre tutte le frontiere, anche quelle dell’anima, che della volontaria, sofferta rottura di tutti i codici visivi precedenti, quelli dello sguardo narrativo classico.

Le violente reazioni e le accuse di blasfemia seguite al secondo medio-metraggio surrealista, L’Age d’Or (1930), dovute alla scena finale nella quale la figura di Gesù viene confusa e sovrapposta a quella del Marchese de Sade (secondo il taglio ferocemente sarcastico del film), lo costringono a lasciare la Francia. Dopo un breve soggiorno in Spagna, dove realizza il documentario Las Hurdes(Terra Senza Pane, 1932), una spietata osservazione della realtà dove la poetica surrealista si informa di contenuti di attualità sociale, approda in Messico, del quale ottiene la cittadinanza nel 1948. Qui riprende, dalla metà degli anni Quaranta, l’attività di autore e regista a tempo pieno.

Realizza nei primi anni messicani film di taglio narrativo tradizionale, senza però rinnegare i tratti dissacranti e surreali della sua formazione e indole artistica, contribuendo anche in maniera importante alla nascita di una cinematografia indipendente in quel Paese. Spiccano in questa fase pellicole succulente come I Figli della Violenza (1950), Adolescenza Torbida (Susana, 1951) e Cime Tempestose (Abismos de Pasion, 1953), passionale trasposizione messicana di un classico della letteratura tardo-romantica inglese (E. Bronte, 1847), che ha interessato il regista – lo voleva fare già negli anni Trenta – per l’esaltazione oltre ogni limite de l’amour fou. Ritorna poi ai temi più cari e graffianti con Nazarin (1958), esempio – non unico nel suo cinema – di imitatio Christi che giunge solo a dure sconfitte.

Segue poi la stagione dei film più significativi e impegnati, nei quali riprende, sia pur in ambito prevalentemente narrativo, le radici surrealiste della sua estetica, realizzando opere che esplorano in via perentoria e definitiva le tematiche di sempre: l’anticlericalismo e la critica feroce alle convenzioni della società borghese. Troviamo allora: Viridiana (1961, Palma d’Oro a Cannes), l’altraimitatio Christi finita male; L’Angelo Sterminatore (1962), la sua più potente e cinica metafora della decadenza borghese, ultimo film messicano. Di produzione e ambientazione francese sono gli ultimi capolavori del suddetto taglio, come Bella di Giorno (1967, Leone d’Oro a Venezia), racconto della perversione che si nasconde in una donna borghese; La Via Lattea (1968), singolare e disarticolata parodia della religione cristiana e dei suoi dogmi; Il Fascino Discreto della Borghesia(1972, Oscar come miglior film straniero 1973), presa in giro dei riti della società borghese, parassitari e inconcludenti; Il Fantasma della Libertà (1974), nel quale la forte negazione delle convenzioni del racconto tradizionale corrisponde alla negazione dell’ambito culturale (la società borghese) dove esse sono nate, in cui la libertà, appunto, è solo apparente.

Nella sua lunga carriera, Luis Bunuel ha dato forma a un corpus di opere formalmente disomogeneo, composto da film surrealisti puri, narrativi quasi di genere, ma soprattutto da film narrativi e parodistici con marcato impianto surreale e spunti tematici forti. In fondo a tutto si scorge comunque un’unica linea guida, cioè l’idea fondamentale dell’avanguardia surrealista secondo cui l’orrore non stia nel mostruoso ma nella normalità, spesso velato dalle convenzioni sociali imposte da borghesia e clero.

Bunuel, come altri maestri della storia del cinema, non ha avuto bisogno di grandi trucchi o effetti speciali per mostrarci tutto ciò, semplicemente ha saputo guardarsi attorno.