A poco più di due soli anni di distanza dall’epocale The Tree of Life (2011) – non era mai intercorso un lasso di tempo così breve tra i suoi cinque precedenti lungometraggi – e nell’anno delle sue settanta primavere, arriva finalmente anche nelle sale italiane l’ultima pellicola scritta e diretta da Terrence Malick (1943), ambientata (ed è la prima volta) nel mondo contemporaneo i cui caratteri e problematiche sono evocati attraverso uno stile ormai riconoscibile e che nemmeno questa volta nasconde o abbellisce ferite, limiti e debolezze dell’uomo (del nostro tempo), ma ne fa ancora lo spunto per una “confessione” semi-autobiografica nell’ambito – sempre più evidente – di una ricerca e di un cammino personalissimi. Due storie di innamoramento, separazione, riavvicinamento e riconoscimento dove la prima non avrebbe il medesimo, lancinante riverbero se la seconda non riguardasse un sacerdote e la sua sofferta conquista finale.

Il montaggio fortemente ellittico impresso (al solito) in fase di post-produzione alla vicenda narrata metterà sicuramente alla prova chi si era già dimostrato insofferente alle opere precedenti, avendo il regista qui optato per un ancor più radicale abbandono del tradizionale linguaggio cinematografico (o perlomeno di quello a cui il pubblico pagante è stato abituato – assuefatto? – da decenni a questa parte). Presentato in concorso e accolto da non pochi fischi e boati di scherno dopo la proiezione ufficiale alla 69ª Mostra del Cinema di Venezia (2012).

 

La trama – In Francia l’americano Neil (Ben Affleck) incontra Marina (Olga Kurylenko), una donna di origini ucraine, che vive a Parigi con la figlia Tatiana (Tatiana Chiline), avuta da un precedente matrimonio all’età di 17 anni con un uomo che l’ha poi abbandonata: grazie a questo nuovo legame, Marina torna a vivere («Rinata. Apro i miei occhi. Mi confondo con la notte eterna. Una scintilla. Cado nella fiamma. Mi hai fatto uscire dal buio. Mi hai raccolto da terra. Mi hai riportato alla vita»). I due sono innamorati e, partiti insieme in auto alla volta di Mont-Saint-Michel, nel chiostro di quella singolare abbazia («Abbiamo salito i gradini alla Meraviglia», il “to the Wonder” del titolo), capiscono di essere fatti l’uno per l’altra, decidendo di trasferirsi con Tatiana a Bartlesville (Oklahoma), il paese di lui.

Ma qui il loro rapporto quotidiano – soprattutto da parte di Neil, che conduce con stanchezza e insoddisfazione la propria professione di ispettore ambientale – non sembra mantenere la promessa dell’inizio («Che cosa è questo amore che ci ama? Che viene da nessuna parte, da tutt’intorno») e va progressivamente indebolendosi. Anche Marina si ritrova sempre più estranea in quel luogo ancora poco familiare («Dove siamo quando siamo? Perché non sempre? Qual è la verità? Quello che sappiamo lassù o quaggiù?»): chi cerca di aiutarla è Padre Quintana (Javier Bardem), un sacerdote che si spende tra ragazze madri, emarginati, carcerati e anziani, anch’egli esule e per di più in preda a una crisi legata all’attuale aridità della sua vocazione («Sei presente dovunque e ancora non riesco a vederti. Sei dentro di me, intorno a me, e non ho esperienza di te. Non come l’avevo una volta. Perché non restare fedele a ciò che ho trovato? […] Perché ci volti le spalle? Tutto quello che vedo è distruzione, fallimento, rovina»).

Alla scadenza del visto, dato anche l’apparentemente inarrestabile deteriorarsi della sua relazione, Marina rientra a Parigi con Tatiana, che per prima aveva manifestato la propria adolescenziale insofferenza nei confronti della nuova sistemazione («C’è qualcosa che manca!»). Neil – che non fa nulla per trattenerla – si riavvicina allora a un’amica d’infanzia, Jane (Rachel McAdams), innamorandosi di lei. Quando però scopre che Marina sta attraversando un momento particolarmente difficile (la figlia l’ha lasciata per andare a vivere con il padre), visti i sentimenti che ancora nutre per lei, la richiama con sé, acconsentendo a sposarla. Ma anche in questa forma il loro rapporto non sembra avere ancora raggiunto la consistenza desiderata («Lottiamo senza sapere perché. […] Come ha fatto l’odio a prendere il posto dell’amore? Come ha fatto il mio tenero cuore ad indurirsi? […] Mio Dio, che guerra crudele. Trovo due donne in me. Una piena di amore per te. L’altra mi tira giù verso terra»).

Non erano in pochi a chiedersi che cosa ancora ci si potesse aspettare da Terrence Malick dopo la prova di autorialità rappresentata da The Tree of Life (2011, Palma d’oro al Festival di Cannes), che cosa ancora ci si potesse attendere da lui dopo la “definitività” di forma e contenuto espressa in quello che resta a oggi il suo film certo più ambizioso se non il suo capolavoro assoluto. Con l’arrivo nelle sale italiane della sua ultima pellicola, To the Wonder (2012), il cineasta aggiunge un altro tassello nella rivisitazione in chiave semi-autobiografica dei grandi temi che agitano il cuore dell’uomo con un’opera dal contenuto apparentemente più “limitato” rispetto alla sinfonia siderale orchestrata nell’opera precedente, ma attraverso una forma decisamente più “radicale” nel suo allontanarsi dal tradizionale linguaggio che il pubblico è ormai abituato ad associare a un qualsiasi prodotto dell’industria cinematografica.

Tanto che a questo punto è lecito chiedersi fin dove si potrà spingere la sperimentalità creativa e la rarefazione poetica di un autore che attraverso il proprio mezzo di elezione (e di ormai esclusiva comunicazione) cerca di dare contorni a ciò che non ha forma e voce a ciò che le parole riescono a stento a esprimere. Paradosso dei paradossi che egli abbia scelto, per dirsi davanti al mondo, di “nascondersi” dietro una macchina da presa. Quelli in questione sono comunque 112 minuti che – avvicinandosi in modo davvero sorprendente come trama, sviluppi e dinamiche a qualcosa da lui già esplorato per la prima volta in The New World – Il nuovo mondo (2005) – si inscrivono pienamente nel personalissimo percorso portato avanti con stile e sensibilità tutti suoi dal regista texano.

Il tono semi-autobiografico della vicenda narrata è subito esemplificato dalle apparentemente spensierate riprese finto-amatoriali che la aprono, dove vediamo il volto e il corpo di Marina accarezzato dalla macchina da presa. All’inizio degli anni Ottanta, il quarantenne Malick andò in Francia a motivo di una breve vacanza, ma decise di restarvi, non facendo più avere sue notizie né alla propria casa di produzione, né ad altri: il motivo è stato dai più identificato in Michèle Gleason (altri scrivono Morette), una ragazza francese che aveva già un figlio da un precedente matrimonio e che egli avrebbe poi sposato in seconde nozze solo nel 1988, portandola con lui ad Austin in Texas, avendo da lei una figlia, per poi divorziare e convolare in una nuova unione con la sua ragazza dei tempi dell’adolescenza. 

Stando alla trama riassunta poco sopra, si potrà quindi notare come non poco di questa dinamica si è conservato anche nel film finito e attualmente in sala. Una storia alla quale in maniera davvero sorprendente vediamo affiancata anche quella di padre Quintana, al quale la sceneggiatura riserva la “presa di coscienza” finale, che a nostro avviso fa da glossa anche alla vicenda di Neil e Marina: «Dove mi stai conducendo? Insegnaci dove cercarti. Cristo, sii con me. Cristo davanti a me. Cristo dietro di me. Cristo in me. Cristo sotto di me. Cristo sopra di me. Cristo alla mia destra. Cristo alla mia sinistra. Cristo nel cuore. Assetandoci. Noi abbiamo sete. Inonda le nostre anime con i tuoi spirito e vita così completamente che le nostre vite possano solo essere un riflesso della tua. Splendi attraverso di noi. Mostraci come cercarti. Siamo stati fatti per vederti».

Da un Wanderer a un altro, verrebbe quasi da dire che Malick nell’arco della sua vita e poi della sua carriera abbia fatto decisamente propria la “sfida” che Franz Schubert lasciò appuntata tra i suoi scritti, nitida e lancinante come l’attacco di uno dei suoi Improvvisi: «Una sola cosa bella deve entusiasmare l’uomo per tutta la vita, è vero; ma lo splendore di questo incontro deve illuminare tutto il resto». Il cineasta pare seriamente intenzionato a raccontare davanti al mondo e a quanti intendono prestargli ascolto quella che è (stata?) la sua esperienza, catturando e dispiegando sul grande schermo vette e abissi del cuore dell’uomo, invitandoci così a essere non solo spettatori adulti, ma protagonisti commossi della (dalla) “gloria” delle nostre vite.

Il compianto Roger Ebert, in quella destinata a rimanere la sua ultima recensione, ha affermato che «Malick, che è sicuramente uno dei cineasti più romantici e spirituali, appare qui quasi nudo davanti al suo pubblico, un uomo incapace di nascondere la profondità della sua visione». Bentornati dunque al “Cinema dell’Assoluto”: è ormai certo che gli straordinari movimenti orizzontali combinati della raffinata macchina da presa di Carl Theodor Dreyer e la misteriosa tensione dei meravigliosi carrelli di Andrej Tarkovskij sono oggi in (ottima) compagnia dell’inesausta ricerca dell’avvolgente steadicam di Malick, anche questa volta affidata alle mani dei fidatissimi Joerg Widmer (operatore) e Emmanuel Lubezki (direttore della fotografia).