La 70ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia (in corso al Lido fino al 7 settembre) è iniziata martedì sera scorso, 27 agosto, con una celebrazione nella/della celebrazione: la proiezione in anteprima mondiale presso l’Arena di Campo San Polo, per la tradizionale Serata di preapertura a inviti organizzata dal Festival in collaborazione con il Comune di Venezia Circuito Cinema Comunale, della versione restaurata dalla Cineteca Nazionale di Roma de Le mani sulla città, pellicola vincitrice cinquant’anni fa del Leone d’oro alla 24ª edizione della Mostra (1963) e quarto lungometraggio del regista e sceneggiatore Francesco Rosi (nato a Napoli il 15 novembre 1922 e premiato con il Leone d’oro alla carriera giusto l’anno scorso, alla bella età di novant’anni). Comunque, così come ieri sera, giovedì 29 agosto, anche questa mattina, venerdì 30 agosto, il programma dedicato a “Venezia Classici – Restauri” ha in calendario la replica del film presso la Sala Volpi del Palazzo del Casinò sia per il pubblico che per tutti gli accrediti.
110 minuti di cinema-denuncia per un racconto che vive dell’intreccio tra politica e poteri economici ambientato in una Napoli contemporanea sotto gli sfrenati attacchi della speculazione edilizia, Le mani sulla città, nelle parole di Sandro Zambetti, «riflette forse più le speranze – molto meno ingenuamente, però, di quanto sostenuto da alcuni – che i timori del momento, ma coglie con estrema lucidità proprio il problema di fondo con cui bisogna misurarsi: quello della occupazione del potere, non solo praticata, ma addirittura teorizzata come l’essenza stessa della politica, a giustificazione del regime che è andato e va sovrapponendosi alla forma democratico-parlamentare con sempre maggiore decisione. […] Il fatto è che tutto il film è costruito in termini di riflessione sul rapporto tra potere e politica […]. Questa riflessione si sviluppa in forma di ampio e articolato dibattito, di cui fatti e personaggi diventano altrettanti argomenti».
Alla sua uscita nelle sale italiane e accolta dalle immaginabili reazioni contrastanti, nella maggior parte dei casi dettate – come allora consuetudine – da ragioni più squisitamente politico-ideologiche che critico-estetiche (Gino Visentini verrà addirittura allontanato da “Il Giornale d’Italia” per il giudizio favorevole espresso nei confronti della pellicola), l’opera in questione ha rappresentato la definitiva consacrazione come autore di Francesco Rosi, che si era formato come aiuto-regista di Luchino Visconti (La terra trema, 1948; Bellissima, 1951; Senso, 1954), Michelangelo Antonioni (I vinti, 1952), Mario Monicelli (Proibito, 1954) e Luciano Emmer (Domenica d’agosto, 1950; Parigi è sempre Parigi, 1951; Il bigamo, 1956) e stava così raccogliendo e rinnovando da par suo l’eredità del Neorealismo italiano. Il tutto dopo il Premio speciale della giuria – ex-aequo con Les amants di Louis Malle – proprio a Venezia con il suo film d’esordio, La sfida (1958), il Premio a San Sebastián per I magliari (1959) e l’Orso d’argento a Berlino per Salvatore Giuliano (1961), l’inizio di un nuovo tipo di cinema politicamente impegnato, con la spiccata vocazione a tentare di carpire e capire l’oggi anche quando il punto di partenza era la riflessione su materiali storici combinata con la loro verifica sul campo.
Parlando proprio di quest’ultimo, il regista avrà modo di ricordare in anni più recenti come «c’è una realtà, che è una realtà oggettiva, esterna rispetto a noi. È fonte d’ispirazione per il regista. Il quale s’ispira alla realtà, ma deve dare, partendo da tale realtà, la propria verità. Non esiste una fonte d’ispirazione più ricca della realtà, ma io la tradisco se vi sovrappongo una forma che non sia dettata da quella realtà. Cerco di far nascere i miei film dalla realtà che osservo e analizzo. Non applicherò alla realtà una storia prefabbricata. Faccio in modo che l’ambiente che analizzo, e la verità umana che studio, mi dettino loro una storia. È ciò che ho fatto per Le mani sulla città e Salvatore Giuliano».
Per quanto riguarda il primo – chiuso dalla celebre didascalia «I personaggi e i fatti sono immaginari, ma autentica è la realtà che li produce» – Giovanni Grazzini dalle colonne de “Il Corriere della Sera” del 6 settembre 1963 già avvertiva i lettori che si trattava di «[u]n film che sopravanza Salvatore Giuliano, e pone Rosi fra i maggiori talenti cinematografici della nostra generazione di mezzo. […] L’opera è riuscita perché, in un argomento che ottiene quotidiane conferme, le due spinte che muovono Rosi hanno coinciso: la descrizione di quei soprusi ci interessa […] perché vi si specchia una gran macchia della vita pubblica italiana contemporanea. […] [S]i è detto che in Le mani sulla città le corde di Rosi suonano all’unisono, tese parallelamente a mettere alla gogna politicanti e approfittatori e a seguire e inchiodare un processo mentale reso drammatico dal conflitto tra due idee-guida della storia: la chiarezza dell’onestà e le ombre del “particulare”. Non c’è bisogno di scomodare Machiavelli e Guicciardini per ricordare come il fossato fra morale e politica, fra coscienza e ragion di Stato, possa essere colmato o approfondito: Rosi sa bene che questo tema è, e sarà, eterno».
Una pellicola giunta in un periodo di svolta del nostro Paese e del nostro cinema, a ricordare anche al pubblico di oggi anni che non avrebbero permesso a nessuno dei due di uscirne uguale a prima.