La malattia come metafora di contaminazione culturale; i sintomi patologici esteriori del corpo umano che diventano la messa in scena – sia in letteratura che al cinema – di percorsi narrativi, racconti individuali e collettivi, oltre che simbolo della commistione dei generi; divismo, conformismo e mass media negli anni ruggenti del jazz, del cinema classico e dell’avvento dei regimi totalitari in Europa. Queste le principali tematiche di Zelig (Usa 1983), singolare film di Woody Allen presentato giusto trent’anni fa al fuori concorso della Mostra del Cinema di Venezia. L’accoglienza non fu entusiasta, discordi i pareri. Film molto “scritto”, si disse, che pare fatto “più col cervello che col cuore”, anche se parte della critica reclamò un Leone onorario. Valutato oggi col beneficio del tempo, esso rimane comunque, per la peculiare forma e gli emblematici temi trattati, un piccolo grande capolavoro dell’arte alleniana.
Il film racconta in forma di documentario, composto da un indistinguibile puzzle di cinegiornali sia autentici che fittizi, fotografie e ritagli di stampa, musiche d’epoca vere e verosimili (ma false), interviste a vere personalità e a personaggi di finzione, la bizzarra storia di un buffo omino di nome Leonard Zelig (Woody Allen). Siamo nel 1928, uno strano fenomeno viene per la prima volta notato dallo scrittore simbolo dell’America anni Venti, Francis Scott Fitzgerald. Questi annota sul suo diario di un uomo che, affetto da ignota e singolare malattia, ha la straordinaria capacità di trasformarsi in chiunque gli stia a fianco. Si tratta di Leonard Zelig, il camaleonte umano.
In compagnia di aristocratici parla con accento bostoniano e pare un nobile; con gli sguatteri si imbruttisce e parla come uno scaricatore di porto; vicino a un rabbino diventa rabbino anche lui con tanto di tradizionale barba; se parla con un irlandese gli spuntano capelli rossi e lentiggini. “Per il Ku Klux Klan Zelig, ebreo capace di trasformarsi in negro o pellerossa, rappresenta una triplice minaccia” dice tra l’altro la voce narrante. Zelig diventa famoso, ne nasce un fenomeno mediatico. Ovunque si vendono gadget, libri a fumetti, indumenti dedicati. Spopola la canzone jazz Doin’ the Chameleon.
Dopo l’ennesima trasformazione che causa un parapiglia in una lavanderia cinese, Zelig viene ricoverato al Manhattan Hospital. È trattato dai medici alla stregua di un fenomeno da baraccone, un soggetto da esperimenti. Essi ne capiscono poco, e meno ancora gli interessa capire. La sola dottoressa Eudora Fletcher (Mia Farrow) comprende che il disturbo di Zelig è di origine psichica, e ne chiede l’affidamento per poterlo curare con la psicanalisi. Il metodo dell’ipnosi e della parola funziona, ma le cose si complicano quando la sorellastra di lui lo sottrae alle cure della dottoressa e ne sfrutta le qualità camaleontiche per denaro. Dopo varie altre disavventure, che lo costringono in fine alla fuga in Europa, dove la Fletcher lo rintraccia tra gli adepti del nazismo, Zelig e la sua dottoressa rientrano in America in modo rocambolesco, con un’impresa aerea. Di nuovo acclamato dalle folle, e finalmente guarito, Zelig infine sposa Eudora Fletcher, sua salvatrice. “Non fu l’approvazione delle masse ma l’amore di una donna a cambiare la sua vita”, chiosa la voce narrante del documentario.
Lo Zelig personaggio di questo singolare film alleniano, acutissimo miscuglio di generi mediatici, incarna in prima lettura il lascito culturale della psicanalisi in termini di rappresentazione metaforica di un disagio interiore; cioè quello che la psicanalisi ha comportato nella cultura e letteratura del Novecento in ordine alla costruzione dell’io individuale, e quindi dei meccanismi della narrazione. Noi tutti, come Leonard Zelig, siamo un variegato insieme di storie, di personaggi e di maschere. Egli, individuo solo più sensibile di altri, estremizza questa attitudine fino a manifestarla esteriormente in sintomi patologici. Si trasforma in altre persone assumendone l’aspetto, rubandone i tratti della personalità e della storia individuale.
La sua singolare patologia altro non è che la somatizzazione metaforica del disagio dell’uomo moderno nella nascente società dei media. L’uomo della modernità comincia a soffrire di sovraesposizione mediatica, pertanto si vuole mimetizzare, nascondere, omologare, intergare, diventare “il conformista per antonomasia”, come dice di Zelig lo psichiatra Bruno Bettelheim intervistato nel film.
In tal senso, la scelta del periodo storico in cui è ambientata la vicenda non è casuale: dalla fine degli anni Venti in poi, vale a dire tra la Grande Depressione e l’ascesa del nazismo in Germania. Sia in America come in Europa, sono questi gli anni in cui si afferma il ruolo dei mass media nel controllo e nel dominio dei popoli. Su ciò si innesta il punto, forse, più sottile e geniale del film: i vari documenti che lo compongono, soprattutto le interviste ai personaggi veri che dicono il falso, funzionano presso lo spettatore – nel dare sostanza documentale alla vicenda di Zelig, rendendola vera – nello stesso modo in cui i media di quel periodo storico funzionavano presso le masse di allora, cioè costruendo in loro una memoria collettiva e una coscienza condivisa (tramite documenti fittizi – cioè falsi – di cui si dichiarava con forza la veridicità), su cui erigere il consenso al potere dominante, nazista o altro che fosse. Sarò malato a mia volta, ma c’è un qualcosa in tutto ciò che mi ricorda la storia recente del nostro bel Paese.
“La malattia di Zelig è un male che appartiene a ciascuno di noi. Nel film è portata all’estremo. Ovvero tutto ciò che può portare al conformismo e infine al fascismo. Perciò ho scelto la forma del documentario: non volevo mostrare questo personaggio nel suo privato”, così lo stesso Allen si esprimeva nel sintetizzare il nocciolo del film. Sul piano personale, Zelig diventa allora per l’Allen regista una riflessione metacinematografica sul proprio lavoro, in quanto evidenzia la sua necessità di ricorrere alle citazioni e agli stili di altri registi per esprimere se stesso. Ovvero, anche l’artista Woody Allen è un essere camaleontico, come il suo amatissimo Leonard Zelig.