«Mac, sei mai stato innamorato?» «No, ho fatto il barista tutta la vita…». Ed ecco venuto il momento di buttar giù l’ultimo bicchierino di whiskey, da abbandonare poi sul bancone, prima di allontanarsi verso l’ingresso del saloon e mentre bottiglia, lampada e barista scompaiono tutti e tre nel buio lì accanto, in quel fuoricampo, che è insieme sia il possibile tutto che il definitivo nulla del cinema…

Un Omero (per immagini su pellicola) made in the USA, ma con un sensibilità tutta irish (per qualche critico un “limite” imperdonabile: la famiglia era infatti originaria della zona di Galway) nel sentire e rappresentare individui, gruppi e comunità e le loro storie: «I miei genitori erano poveri, e io avevo tredici fratelli e sorelle. Dell’infanzia ho conservato il gusto della brava gente, della gente semplice, della gente che continua tranquillamente a fare il proprio dovere in mezzo agli imbroglioni e ai malvagi. Spesso mi viene rinfacciato il mio idealismo. Non lo nego. Il fatto è che io credo a un mucchio di cose che ormai si è presa l’abitudine di sbeffeggiare: l’amore, l’amicizia, e anche la giustizia, quando è virile. Amo gli uomini e ho fiducia in loro».

Classe 1894, nato John Martin Feeney (che più tardi “gaelicizzerà” in Sean Aloysius O’Faerna), attivo dietro alla macchina da presa dal 1917 al 1966 per un totale di quasi 140 regie di film sia muti che sonori, la maggior parte dei quali non più fruibili in quanto perduti (la produzione del periodo muto è sconosciuta per più dell’ottanta per cento). Poi due anni di battaglia contro un cancro che se lo porta via il 31 agosto di quarant’anni fa all’età di 79 anni: la 70ª edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia non poteva quindi mancare di ricordarlo con la doppia proiezione in Sala Volpi, sabato e domenica scorsi, di uno dei suoi capolavori in versione originale con sottotitoli in italiano, proposto nella sezione “Venezia Classici – Restauri”.

Stiamo parlando di John Ford e di Sfida infernale (My Darling Clementine, 1946), che è il rifacimento di Gli inesorabili (Frontier Marshal, 1939) di Allan Dwan (a sua volta ispirato alla biografia del famoso Wyatt Earp stesa da Stuart N. Lake dopo molti mesi di colloquio con lo “sceriffo di frontiera” in persona) e che rappresenta anche la più celebre versione di uno degli eventi più conosciuti della storia del West americano, la sparatoria al maneggio “O.K. Corral” di Tombstone (Arizona) che oppose i fratelli Earp e John “Doc” Holliday alla famiglia Clanton, una vicenda che è poi stata alla base anche di altre pellicole del genere western (per André Bazin «il cinema americano per eccellenza»): oltre a quelle di John Sturges, si pensi al più recente e “revisionista” Wyatt Earp (1994) di Lawrence Kasdan con Kevin Costner nella parte del titolo.

Come scrive Morando Morandini «nessuno come J. Ford ha saputo mettere meglio in immagini la sfida all’OK Corral, nessuno come lui è riuscito a trasformare la nostalgia in poesia. […] Comincia ad affiorare quell’arte della digressione di cui diventerà maestro in vecchiaia, ma è altrettanto notevole la dialettica dei contrasti: l’azione violenta (nove cadaveri di personaggi principali) si alterna con le parentesi idilliche, l’aura mitica di cui sono circondati i personaggi si basa sulle loro imprese, ma anche sui particolari familiari e pittoreschi del comportamento». Una volta ultimato il film (che, dopo la forzata ma attiva parentesi legata all’esperienza bellica, ha segnato il suo ritorno alla 20th Century Fox, al genere cinematografico di elezione, e – soprattutto – all’amata Monument Valley), Ford arriva addirittura a fondare una propria casa di produzione, la Argosy Pictures, un’avventura lavorativa che va dal 1946 al 1956, l’anno di Sentieri selvaggi (The Searchers), pellicola che appassionati, ammiratori, colleghi e critici avranno poi modo di indicare quale suo migliorwestern.

Secondo Jean-Loup Bourget, docente di Studi cinematografici à l’École normale supérieure di Parigi, membro del comitato di redazione di “Positif” e suo eminente studioso, «[s]e l’opera di Ford suscita in noi un’ampia varietà di emozioni, se di volta in volta ci esalta, ci intenerisce, ci fa ridere o piangere, significa che, lungi dall’essere riducibile a schemi, essa si incarna non soltanto nei personaggi, ma in un linguaggio cinematografico davvero unico. Sia chiaro: un “linguaggio” in senso metaforico, i cui elementi costitutivi sono l’immagine e la sua inquadratura, il gesto dell’attore, i giochi di luce e d’ombra, il ritmo del montaggio, lo slancio che gli viene impresso dalla colonna sonora. Una lingua bella, ricca, poetica, che sta in un certo senso al cinema hollywoodiano classico […] come la lingua di Shakespeare sta all’inglese dell’età elisabettiana».

Da Omero a Shakespeare, dal massimo poeta epico della letteratura antica al più grande drammaturgo della storia: davvero niente male per un irlandese di seconda generazione che si è fatto strada nella “fabbrica dei sogni” hollywoodiana all’età dei pionieri scalando in tre anni – dal suo arrivo nel 1914 alla sua prima regia nel 1917 – quasi ogni ruolo presente nella gerarchia di un set cinematografico: trovarobe, attrezzista, macchinista, cascatore, montatore, assistente alla regia. E chissà quante cervezas messicane scolate da solo o in brigata con amici e colleghi nel corso di tutta una vita… «Mac, sei mai stato innamorato?» «No, ho fatto il barista tutta la vita…».