Sessant’anni fa il Leone d’Argento della XIV Mostra di Venezia assegnato a I Vitelloni, premio al secondo miglior film in concorso per il secondo film (e mezzo) di Federico Fellini, rivelava al mondo l’immenso talento del giovane regista riminese. Dopo l’esordio a quattro mani, con Lattuada, di Luci del Varietà (1950) e la prima regia autonoma de Lo Sceicco Bianco (1952), che vide – nel settembre 1951 – i leggendari fatidici “cinque minuti” del primo ciak in cui Fellini diventò Fellini, il regista supera i confini del tardo neorealismo per arrivare a una commedia affettuosa e amara, atipica in quanto episodica e corale a un tempo, di insospettabile respiro generazionale; da molti considerata ancor’oggi il suo film più sincero.
Con in testa fin da prima de Lo Sceicco Bianco l’idea di una fiaba moderna sugli spettacoli itineranti, sui saltimbanchi di piazza e girovaghi d’arte varia, che diventerà il film successivo La Strada (1954), Fellini ancora dopo si vede costretto dal produttore Lorenzo Pegoraro a rinviarne la realizzazione: questi non vuole rischiare e preferisce, per il momento, produrre una commedia. Nascono così in breve tempo, dalla penna degli abituali collaboratori Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano, e dello stesso Fellini, soggetto e sceneggiatura de I Vitelloni.
Origine e significato del titolo è spiegato dallo stesso Flaiano, pescarese, in una lettera del 1971, nella quale precisa che l’espressione è marchigiana e sta ad indicare giovani sfaccendati e studenti di lungo corso, mantenuti dalla famiglia. “(…), credo che il termine sia una corruzione di ‘vudellone’, grosso budello, persona portata alle grosse mangiate e passato in famiglia a indicare il figlio che mangia a ufo, che non produce, un budellone da riempire”. Nonostante gli evidenti tratti autobiografici e memoriali, rintracciabili soprattutto nell’ambientazione, Fellini non è stato mai un vitellone. Se ne andò poco più che ventenne dall’immobile provincia, con coraggio e voglia di fare arrivò a Roma in tempo di guerra, nella città eterna – dichiarata aperta – trovò subito di che mantenersi, prima come fumettista e scrittore satirico, poi come sceneggiatore per i maestri del neorealismo, infine come regista autore dei propri sogni. Non smise mai di lavorare se non quasi cinquant’anni dopo, causa il colpevole ostracismo dei produttori all’indomani del flop commerciale dell’ultimo film (La Voce della Luna, 1989).
In un immobile paese di mare, non meglio identificato, cinque amici passano le giornate tra il biliardo, le feste in maschera e le burle, le nottate al caffè, improbabili avventure sentimentali – più sperate che vissute – e sogni in riva al mare d’inverno. Sono Moraldo (Franco Interlenghi), il più giovane e sensibile; Fausto (Franco Fabrizi), il latin lover del gruppo, capo carismatico ma in realtà il più infantile; Riccardo (Riccardo Fellini, fratello minore di Federico), un fanciullone con una bella voce da tenore; Leopoldo (Leopoldo Trieste), l’intellettuale del gruppo, sognatore aspirante commediografo; Alberto (Alberto Sordi), il più burlone, attaccato alla madre e alla sorella.
Fausto è costretto a sposare Sandra (Eleonora Ruffo), sorella di Moraldo, dopo averla “inguaiata”. Trova lavoro presso un commerciante di oggetti sacri, ma viene cacciato quando ne insidia la moglie. Alberto non riesce a, o non vuole, trovare lavoro. Vive con la madre e la sorella, con la quale litiga causa la sua relazione con un uomo sposato. Quando questa lascia la famiglia, Alberto ne soffre, ma solo per poco. Leopoldo, commediografo ancora inedito, cerca di affibbiare un copione a una vecchia gloria del teatro, in paese con la compagnia del varietà “faville d’amore”, ma scopre con terrore – e scherno degli amici – che l’interesse dell’attore per lui non è esattamente artistico. Della stessa compagnia fanno parte alcune soubrette: i vitelloni, tranne Moraldo, ne approfittano per un’avventura. Allora Sandra, stufa per l’ennesimo tradimento, scappa con il bambino, si rende introvabile per diverse ore.
Questa volta Fausto si spaventa davvero, e quando la crisi si ricompone, pare aver messo la testa a partito. Tutto è tornato come prima, e i vitelloni riprendono la vita e le burle di sempre. Alla fine il solo Moraldo trova il coraggio per andarsene davvero. Una mattina all’alba sale su un treno e parte, senza dire nulla a nessuno. La voce di Fellini, che doppia Moraldo solo per l’ultimo saluto dal treno in corsa, suona come l’addio accorato a un mondo che scompare per sempre.
Con I Vitelloni Fellini mette definitivamente a punto un suo peculiare modo di raccontare, che anziché seguire una vicenda principale con eventuali sottovicende, procede per blocchi episodici più o meno ampi e di uguale importanza, dando così al regista la possibilità di disegnare piccoli affreschi di senso compiuto, che concatenati l’uno all’altro danno a tutto il film un tono visivo più deciso e omogeneo. Tra i diversi luoghi dove i vitelloni si ritrovano, che diverranno topos cari al regista (la piazza deserta, la stazione, i raduni di massa come i matrimoni o le feste di carnevale), spicca il mare, invernale quindi ancora più triste e struggente, contraltare visivo dell’immobilità del luogo e della deserta vita dei personaggi.
Come metafora di un elemento primordiale indeterminato, il mare rappresenta nell’immaginario del regista “una riga blu che taglia il cielo e dalla quale possono arrivare le navi corsare, i Turchi, il Rex, gli incrociatori americani con Ginger Rogers e Fred Astaire che ballano all’ombra dei cannoni”. E il ricordo corre subito alla scena finale de La Dolce Vita (1960) sul litorale romano, ai sogni e incubi diurni di Giulietta sulla spiaggia in Giulietta degli Spiriti (1965), alla notte in barca nell’attesa del passaggio del Rex in Amarcord (1973).
Il successo del film fu notevole quanto inatteso, tanto che Fellini pensò di girare una sorta di seguito. Scrisse infatti nel 1954 un trattamento, con i soliti Pinelli e Flaiano, dal titolo Moraldo in Città. La sceneggiatura non sarà mai completata e il film mai realizzato, ma l’inedito script verrà utilizzato per lo spunto di partenza de La Dolce Vita (1960). Un importante critico di allora disse che con I Vitelloni il cinema italiano aveva acquistato “un regista in più”. Oggi possiamo dire che quel regista in più è stato il regista per eccellenza del cinema italiano, per indubbio merito.