«Noi lavoriamo sempre insieme. La divisione del lavoro suggerita dai titoli è molto arbitraria. In realtà, noi realizziamo e produciamo insieme tutti i nostri film, e così è sempre successo. Stiamo insieme sul set, discutiamo con i tecnici e gli attori, senza grandi distinzioni di ruoli». Dopo quelli (storici) che hanno dato vita (e nome) alla casa di produzione Warner, sono loro gli altri Bros. per eccellenza del cinema a stelle e strisce. Due fratelli cineasti nati a distanza di tre anni l’uno (Joel, 1954) dall’altro (Ethan, 1957) in un sobborgo di Minneapolis (Minnesota) e poi trasferitisi a New York.
Entrambi scrivono le sceneggiature e montano le loro pellicole (nascosti sotto lo pseudonimo di Roderick Jaynes), il secondo produce, il primo dirige. Oggi è tempo di festeggiare i 60 anni di Joel (Daniel) Coen, “The Two-Headed Director”, il regista a due teste, come sono scherzosamente conosciuti nell’ambiente. Padre docente di economia e madre professoressa di storia dell’arte, entrambi in ambito accademico: i brothers crescono quindi in un ambiente middle class di provincia, essendo – tra l’altro – la prima generazione a farlo davanti a una televisione.
Le strade si dividono quando Joel si iscrive alla scuola di cinema della New York University e inizia a fare l’assistente al montaggio per diversi horror a basso costo (tra i quali spicca La casa dell’amico Sam Raimi), mentre Ethan si laurea in Filosofia a Yale (con tesi su Wittgenstein). Si riuniscono per Blood Simple – Sangue facile (Blood Simple, 1984), il loro esordio nel lungometraggio: l’opera vince il Gran Premio della giuria alla prima edizione del Sundance Film Festival e rappresenta «già di per sé un film-paradigma: radicamento nel B movie; omaggio al noir classico, con dovizia di citazioni cinefile; stravolgimento beffardo del genere, con l’introduzione di atmosfere dark; gusto sofisticatissimo della contaminazione, costruzione virtuosistica del racconto, sostanziale concezione nichilistica e postmoderna delle vicende umane, puro pretesto per una decostruzione narrativa che punta a restituire più il nonsenso che il senso delle cose» (Sergio Arecco).
Tre anni dopo ecco Arizona junior (Raising Arizona, 1987), aggiornamento pop della screwball comedy – la commedia brillante americana anni Trenta e Quaranta, i cui principali esponenti erano l’amato Preston Sturges, Howard Hawks e Frank Capra – nel quale «credo che si senta molto la nostra ammirazione per gli scrittori del Sud come William Faulkner, Flannery O’Connor… Anche se non abbiamo lo stesso interesse di quest’ultima per il cattolicesimo!» È poi la volta di Crocevia della morte (Miller’s Crossing, 1990), una sorta di Padrino rivisitato in chiave postmoderna mescolando i codici del cinema gangsteristico con quelli della commedia.
La consacrazione internazionale arriva con Barton Fink – È successo a Hollywood (Barton Fink, 1991): in concorso al Festival di Cannes, porta a casa – primo caso nella pluridecennale storia della rassegna sulla Croisette – la Palma d’oro, il premio per la regia e il riconoscimento al migliore attore (John Turturro). Dopo questo successo va registrato il fiasco (commerciale) e il passo falso (produttivo) del successivo Mister Hula Hoop (The Hudsucker Proxy, 1994), seguito però da quel piccolo gioiello che è Fargo (id., 1996), che frutta ancora il premio per la regia a Cannes e due Oscar (su sette candidature) per l’attrice protagonista (Frances McDormand, moglie di Joel dal 1984) e per la sceneggiatura originale («E tutto per cosa? Per quattro biglietti di banca. C’è ben altro nella vita che quattro biglietti di banca. Non ci hai mai pensato? Ed eccoti qua. Ed è una bellissima giornata. Beh… non riesco proprio a capire»).
Gli “svaghi” continuano con Il grande Lebowski (The Big Lebowski, 1998), tripudio di cosiddetti “Kafka breaks”. Richiesti infatti di una spiegazione del personaggio di Jesus Quintana (Turturro), i due parlano di «un Kafka break, un’apparizione che serviva solo a realizzare un nostro sogno: vedere Turturro nei panni di un pederasta ispanico» mentre per loro il film «è la visione anni Novanta di un racconto noir alla Chandler».Fratello, dove sei? (O Brother, Where Art Thou?, 2000) segna invece il primo incontro con George Clooney, che – baffetti alla Clark Gable – viene inserito in una storia vagamente ispirata all’Odissea («Uno dei nostri canovacci preferiti») mentre la pellicola si (s)colora di bianco e nero per L’uomo che non c’era (The Man Who Wasn’t There, 2001), grottesca parabola di un anonimo e silenzioso barbiere di provincia (Billy Bob Thornton) in cui si sentono gli echi (anche) di Albert Camus: «Ero come un fantasma che cammina per strada e quando tornavo a casa, ero circondato dal vuoto. Mi sedevo lì… ma non c’era nessuno. Ero un fantasma. Non vedevo nessuno e nessuno vedeva me. Ero il barbiere». Altro premio per la regia a Cannes (ex aequo con Mulholland Drive di David Lynch).
Si aggiungono poi al carnet dei divertissements il secondo Clooney della carriera con Prima ti sposo, poi ti rovino (Intolerable Cruelty, 2003), il primo (e ancora unico) Tom Hanks grazie a Ladykillers (The Ladykillers, 2004) e il terzo Clooney (con il primo – e tuttora unico – Brad Pitt) per Burn After Reading – A prova di spia(Burn After Reading, 2008). Ma il bello arriva con Non è un paese per vecchi (No Country for Old Men, 2007), riduzione cinematografica dell’omonimo romanzo (2005) di Cormac McCarthy: «Un poliziesco metafisico. Un western shakespeariano. Un road movie tragico. Un racconto di fate senza fata. Ma con un orco. Un vecchio sceriffo sciupato. E un cavaliere affaticato da una vita fatta di niente» (Eric Libiot). Una pellicola premiata con gli Oscar per i migliori film, regia e sceneggiatura non originale oltre che per l’attore non protagonista (Javier Bardem), in una notte nella quale i brothers brillano con ben tre riconoscimenti nominali (sui quattro complessivamente conquistati dall’opera).
E che dire di A Serious Man (id., 2009)? «Quando la verità si scopre essere falsità e tutta la speranza dentro di te se ne va, cosa si fa? […] Fa il bravo!» E accetta il mistero. Mentre ne Il Grinta (True Grit, 2010), tratto da un romanzo western di Charles Portis, anche se «il tempo ci sfugge», pure ci sono dei segni – moncherini o “galoppi notturni” che siano – a renderci evidente il contrario, cioè che il tempo è condizione per il “miracolo” del cambiamento: «Si deve pagare per tutto a questo mondo, in un modo o nell’altro. Niente è gratuito. Tranne la Grazia di Dio». Un percorso differente ma non del tutto estraneo a quest’ultimo lo si ritrova anche in A proposito di Davis (Inside Llewyn Davis, 2012), Grand Prix della giuria di Cannes, mentre il prossimo film, Hail Caesar!, è attualmente in fase di lavorazione a Los Angeles, con uscita prevista nel 2016.
Insomma, seriously or not, i Coen Bros. sono sempre nella mischia: c’è da vedere se faranno (ancora) i bravi…