Trent’anni fa ci lasciava il regista californiano Sam Peckinpah, forse oggi poco noto ai più giovani ma figura di primissimo piano nell’ipotetica foto di gruppo degli autori di sempre della storia del cinema, soprattutto in veste di innovatore del genere western e insieme di suo ultimo grande cantore. Nato nel 1925 a Fresno, piccolo centro a metà strada tra San Francisco e Los Angeles, David Samuel Peckinpah era figlio di un giudice. Dopo gli anni della Seconda guerra mondiale si diploma nel 1950 in arte drammatica alla Fresno State University. Inizia con la televisione, scrivendo e dirigendo diverse serie western. Passa poi al cinema a fianco di Don Siegel, maestro d’azione e d’insospettabile introspezione, scrivendo per lui la sceneggiatura di un classico della fantascienza anni Cinquanta, L’Invasione degli Ultracorpi (1956).
La prima regia è del 1961 con La Morte Cavalca a Rio Bravo, una singolare storia d’amore in un west senza eroi, nella quale, nonostante i tagli imposti dalla produzione, si notano già ben delineati i temi cari al regista, poi meglio sviluppati nella filmografia successiva. Il western è infatti il terreno ideale per la rappresentazione delle sue concezioni antropologiche negative, ispirate da una visione nichilista del mondo contemporaneo.
Dei primi dieci film realizzati, dal citato Rio Bravo fino a Voglio la Testa di Garcia (1974), sei sono western classici, due sono considerabili degli western moderni, mentre Cane di Paglia (1971), se pur di ambientazione contemporanea (e inglese), ha nella sua struttura i topoi del western classico, come la difesa della tana e della donna contro l’assalto dell’altro, nella logica del lupo contro altri lupi. Rimane il solo Getaway! (1972), lontano dal western ma incentrato sulle consuete figure di eroi violenti e perdenti.
Il suo west non è rivisitazione storica, è paradigma dell’America contemporanea. In Peckinpah coesistono un’angoscia di fronte alla brutalità dell’esistenza nel mondo moderno, che descrive in modo cinematograficamente molto efficace nella sua apparente insensatezza e violenza, e un’anima nostalgica, che meglio emergerà nella fase elegiaca del suo lavoro. Ma è nello stile che il regista californiano eccelle, inventandosi un cinema fatto di un montaggio frammentato e caotico, a volte parossistico, riflesso del caos materiale e morale che domina i suoi personaggi, spesso intrisi di nichilismo amorale e violenza gratuita. Per questo è considerato da molta critica un precursore del post-moderno. Lo stile Peckinpah riaffiora infatti – da alcuni brutalmente scopiazzato – sia in film di successivi registi importanti come Scorsese, Tarantino e John Woo, come in quelli di autori minori dediti al basso marketing.
Il capolavoro della sua carriera, che coincide con uno dei migliori western di sempre – e anche uno dei migliori film tout court – arriva nel 1969, dopo cinque anni di stop dovuti al flop commerciale del precedenteSierra Charriba (1964). Il Mucchio Selvaggio è l’apoteosi del western classico nell’epoca delle rivoluzioni linguistiche e del rinnovamento formale inaugurato dai movimenti dei primi anni Sessanta. Nell’incipit del film, di singolare taglio simbolico, troviamo raffigurata la sua visione nichilista dei rapporti umani, quasi unostatement valido per tutto il suo cinema: alcuni bambini giocano con degli scorpioni, stimolandoli al combattimento fratricida e poi uccidendoli per divertimento, alla stregua di piccoli dèi, remoti e insensati nemici delle umane vicende.
Ai tempi Il Mucchio Selvaggio fece scalpore non solo per l’amoralità dei personaggi e il sangue esibito coma mai prima, ma anche per la spettacolarità e grande libertà della messa in scena, che combina ralenti e flash subliminali con grande abilità nel mescolare tempi e punti di vista diversi. Per temi e stile, quindi, il film è da considerarsi il punto più alto, possente e controllato di tutto il suo cinema.
Inoltre si può affermare, senza timore di esagerare, che la sparatoria totale che conclude Il Mucchio Selvaggio, strabiliante nel suo realismo parossistico, concluda anche – per sempre – l’epoca del western classico, uccidendolo letteralmente, lasciandogli per gli anni a venire solo l’opzione crepuscolare o quella di taglio storico-revisionista (come sarà con Balla coi Lupi di Kevin Costner, 1990). È infatti ascrivibile al primo tipo l’ultimo western di Peckinpah, quel Pat Garret e Billy the Kid (1973) che narra in termini quasi elegiaci – magnifica la fotografia – le vicende di due emblematiche figure del mitico west, personaggi realmente esistiti cui Hollywood ha già dedicato altre opere, come Furia Selvaggia di Arthur Penn (1958), tratto da un teleplay di Gore Vidal. Nel bellissimo film di Peckinpah completa l’atmosfera crepuscolare un commento musicale di prim’ordine, opera di Bob Dylan (che anche recita nei panni di Alias), comprendente la celeberrima Knockin’ on Heaven’s Door.
Dopo la fase western, la più ricca di contenuti e stilemi, un Peckinpah sempre più succube di alcool e droghe dirige altri cinque film, tra i quali spicca La Croce di Ferro (1977), suo unico film di guerra. Se pur troppo incline al manierismo autocelebrativo, il film evidenzia comunque in diverse sequenze – soprattutto quella dell’ospedale e le scene di morte al rallentatore – la matura e consapevole maestria del grande regia di cinema.
Sam Peckinpah si spegne il 28 dicembre 1984 a Inglewood, California, colpito da ictus. La sua impronta nella Hall of Fame hollywoodiana – realmente apposta o no che sia – rimarrà esemplare nel tempo come quella di un autentico campione della messa in scena cinematografica, inventore di un nuovo cinema capace ancora oggi di impressionare, stupire e insegnare. Pace sia alla sua tormentata anima.