A quindici anni di distanza dalla vittoria de La vita è bella (1998) di e con Roberto Benigni, La grande bellezza di Paolo Sorrentino ha quindi riportato in Italia il premio Oscar per il miglior film straniero. Meritato trionfo per un capolavoro che è stato inizialmente misconosciuto in patria e fuori (Cannes 2013)? Questo esito non può infatti esaurire la questione: Lgb sì, Lgb no, Lgb ni? Qui il lavoro richiesto, anche da parte di quegli «alpini di pianura» che sono i critici (la definizione – citata dallo stesso regista – è di Carmelo Bene), è un altro. Il vero punto di avvio della pellicola non è il suo incipit – che, come il film, mostra di “sapere” non poco dell’ultimo Malick, a cui Sorrentino deve avere guardato in maniera tutt’altro che superficiale. I due si sono ritrovati in concorso nel 2011 a Cannes, il primo con The Tree of Life e il secondo con This must be the place. È noto come è finita, ma sentite qui il cineasta napoletano intervistato quello stesso anno da “MicroMega” (n.6/2011): «Per essere avanguardia tra i linguaggi, il cinema deve riuscire a parlarne almeno uno senza balbettii. Nell’Albero della vita c’è una polifonia, una testimonianza di libertà, un’eversione rispetto al manuale narrativo che tutti, a iniziare dagli americani, adottano come religione unica. […] [M]i interessa l’anticonvenzionalità dell’operazione. […] Malick osa a suo modo e ride in faccia alla normalizzazione. È un segnale consolante. Non tutto è perduto».
Dopo una mezz’ora abbondante, ecco l’incontro tra il protagonista, l’ex scrittore e ora giornalista Jep Gambardella, e Alfredo Marti, il marito di Elisa De Santis, ovvero il primo, grande, solo “affetto speciale” di Jep, un’esperienza da lui evocata nel finale del suo unico romanzo giovanile, L’apparato umano: «A luce intermittente, l’amore si è seduto nell’angolo. Schivo e distratto esso è stato. Per questa ragione non abbiamo più tollerato la vita». Alfredo è giunto per comunicare a Jep la scomparsa della moglie e fargli sapere che lui è stato l’unico uomo da lei veramente amato. La sequenza è seguita dalle immagini della grottesca risata e dei fugaci e severi sguardi indagatori di tre diverse suore, alcune delle non poche figure di religiose e religiosi che si vedono nella pellicola, aspetto narrativamente giustificato dall’ambientazione romana della vicenda: paiono però le risate e gli sguardi di un’entità superiore che si percepisce beffarda o distante rispetto ai sentimenti e alle emozioni umane, invece di costituire – con i suoi “rappresentanti” – un attendibile interlocutore sulla strada.
Da notare che solo poco prima Jep si era descritto in voce fuori campo: «La più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto 65 anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare. Quando sono arrivato a Roma, a 26 anni, sono precipitato abbastanza presto, quasi senza rendermene conto, in quello che si potrebbe definire il vortice della mondanità. Ma io non volevo essere semplicemente un mondano. Volevo diventare il re dei mondani. E ci sono riuscito».
La notizia di Elisa sarà l’inizio della risalita verso le «radici», alla ricerca della “grande bellezza” evocata da una bionda ragazza di 20 anni che «aveva l’odore dei fiori», in attesa sotto un faro, su di un’isola, in mezzo al mare azzurro. Una presenza che non invecchia (meglio: che non viene mai mostrata nella sua maturità anagrafica) e «nell’adorazione» della quale trascorrere il resto della vita. Chi si sentirebbe escluso da una sfida così posta? Come nell’Iperione hölderliniano: «Un tempo fui felice, Bellarmino! Lo sono ancora? Lo sarei anche se il sacro istante in cui la vidi per la prima volta fosse stato l’ultimo? Ho veduto una sola volta l’unica, colei che la mia anima cercava, e la perfezione che noi collochiamo al di sopra delle stelle, che noi allontaniamo sino alla fine del tempo, questa perfezione l’ho sentita presente. Era là, questo essere supremo, là nella sfera della umana natura e delle cose esistenti. Non domando più dove essa è; è esistita nel mondo e può ritornarvi; vi è soltanto nascosta. Non domando più che cosa sia, l’ho veduta, l’ho conosciuta. O voi, che cercate quanto vi è di più alto e di più perfetto, nella profondità della sapienza, nel tumulto dell’azione, nel buio del passato, nel labirinto del futuro, nelle tombe e al di sopra delle stelle! Conoscete il suo nome? Il nome di ciò che è uno e tutto? Il suo nome è bellezza. Sapevate voi ciò che volevate? Io non lo so ancora, ma ne ho il presentimento […]». Il volto che chiude un’opera di 130 minuti intessuta di squarci e sguardi talora sospesi, enigmatici, quasi come al Prado la “testamentaria” Lechera di Francisco de Goya segue la stanza dedicata alle sue abissali pinturas negras.
Sorrentino ha precisato che «[i]l film è una dicotomia tra sacro e profano. Per me che sono ateo il sacro è tutto ciò che è degno di essere ricordato. Il profano resta il dimenticabile. […] Può non piacere, molti l’hanno odiato. Però è un film sullo spreco della vita. Gli esseri umani sprecano la vita troppo spesso nel dimenticabile. E io è questo che ho cercato di mostrare. […] Se c’è una nostalgia nel film è per la rinuncia che ha fatto il nostro Paese sulla frequentazione del mistero. È come se avessimo rinunciato a misurarci con quello che ci riusciva meglio».
Ce lo ha ricordato di recente anche Maria Gloria Riva (“Avvenire”, domenica 2 febbraio), che, citando Marc Chagall, tornava ad augurarsi di poter sbattere in faccia a questo secolo il guanto della bellezza per colpire l’uomo nelle sue nostalgie e obbligarlo a tornare ai misteri. Suor Riva parlava della sua vita da consacrata, il regista ci ricorda che non è mai troppo tardi per tornare a lasciarsi sfidare e ferire dalla domanda, almeno fino al limite estremo posto da quella sottile lama che passa nel cuore di tutti e ciascuno, che si chiama libertà: «Cercavo la grande bellezza ma non l’ho trovata. […] Finisce sempre così: con la morte. Prima, però, c’è stata la vita, nascosta sotto il bla bla bla bla bla… È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura, gli sparuti, incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo… bla bla bla bla… Altrove… c’è l’altrove. Io non mi occupo dell’altrove. Dunque, che questo romanzo abbia inizio. In fondo è solo un trucco. Sì, è solo un trucco». Negando, affermare: non si può vivere, spendere i propri giorni, uno dopo l’altro, che per qualcosa di presente. Qui e ora.
Non sottovalutiamo quindi la portata di questo fiume che pare muoversi appena sotto il pelo dell’esistente, del visibile (il lungo carrello finale fino al ponte di Castel S. Angelo sui titoli di coda), pur con tutte le anse che crea lungo il suo percorso…