Il cinema italiano compie cento anni. La ricorrenza è un po’ stilizzata – come sintesi impone – ma storicamente non priva di fondamento. Il 18 aprile del 1914 si celebrava infatti, in contemporanea al Teatro Vittorio Emanuele di Torino come a quello Lirico di Milano, la prima del film storico Cabiria di Giovanni Pastrone. Piemontese nato nel 1882, regista, sceneggiatore e pioniere dei produttori italiani, Pastrone è da considerarsi effettivamente il padre del nostro cinematografo.

Dopo gli inizi come violinista presso l’orchestra del Teatro Regio di Torino, Pastrone – che era anche un contabile – entra a piè pari nella nascente industria cinematografica torinese, migliorandone in pochi anni sia l’organizzazione amministrativa che, soprattutto, quella tecnica e distributiva. Altri centri produttivi erano già attivi da alcuni anni sia a Roma che a Milano. Si deve alla Cines di Roma la prima proiezione pubblica in Italia del settembre 1905: La Presa di Roma di Filoteo Alberini – un corto di dieci minuti oggi in parte perduto – inaugurava con il cinema italiano anche un genere destinato a grande fortuna in ogni Paese: il film storico o in costume. È questo il genere nazionale del nostro primo cinema. Negli anni tra il 1910 ed il 1913 vengono infatti prodotti tra Roma e Torino film quali Gerusalemme Liberata e Quo Vadis (di Enrico Guazzoni), Gli Ultimi Giorni di Pompei (di Mario Caserini) e La Caduta di Troia dello stesso Pastrone.

La Milano Films intenta invece la strada, contigua a quella storica, del cinema di trasposizione letteraria e artistica, producendo nel 1911 Inferno (regia a più mani), riduzione filmica della prima cantica dantesca. Questo è anche il primissimo lungometraggio realizzato in Italia, composto da cinque bobine per più di 60 minuti di durata.

Ma tutti i film citati, anche se raccontano storie, sono ancora prevalentemente di tipo arcaico-attrattivo, costituiti da una serie di quadri giustapposti, messi in sequenza senza un vero e proprio montaggio – che ancora non esiste – e dove lo sguardo della macchina da presa è di tipo teatrale, a inquadrature fisse mantenute a lungo sul totale della scena, con gli attori che entrano ed escono dal quadro senza generare rapporti tra il campo (visivo) e il fuori campo, che ancora non esiste, poiché tutto l’universo diegetico (narrativo e drammatico) è ancora solo nel campo e l’inquadratura è completamente autarchica.

Quindi Cabiria, con il suo gigantismo scenografico e l’immancabile intreccio storico, non casca dal nulla, ma per il suo stile innovativo segna di fatto un fermissimo punto di svolta nella storia del nostro cinema, e non solo, costituendo in un certo senso l’anello di congiunzione tra le attrazioni delle origini e la narrazione trasparente che sta per nascere in America.

Il film racconta di Cabiria, bambina romana che nel III secolo avanti Cristo viene rapita dai pirati e portata dalla Sicilia in Africa, venduta ai cartaginesi per essere sacrificata al dio Moloch, ma infine salvata dal romano Fulvio Axilla, che la riporta a Roma e la sposa. La vicenda, ambientata al tempo delle guerre puniche, è semplice e tradizionale, e si innesta nel tessuto degli avvenimenti e dei personaggi storici (lo sfarzo della reggia di Sofonisba, Annibale che valica le Alpi, le battaglie di Scipione l’Africano). Serve soprattutto per dare un senso alle scene di massa, svolte in scenografie giganti e visionarie.

Il racconto è ben strutturato, ma ancora è un pretesto per mettere in scena soprattutto un’attrazione visiva, un grandioso spettacolo di teatro, immagini e musica orchestrale eseguita dal vivo, il tutto con un impatto molto simile a quello dell’opera lirica.

L’importanza di Cabiria si rintraccia allora nelle fondamentali innovazioni di stile e, quindi, di linguaggio. Esso costituisce un passo storico importante per lo sviluppo di un linguaggio cinematografico autonomo, peculiare e distinto da quello di ogni altro media precedente.

Pastrone inventa il carrello, che gli consente di muovere lo sguardo dello spettatore sulla scena, creando enfasi emotiva. Abbandona l’autarchia del piano totale e fisso introducendo anche piani ravvicinati e di taglio intermedio, atti a costruire racconto piuttosto che ad attrarre stupore visivo. Le carrellate di Cabiria sono pertanto, con ogni probabilità, le prime inquadrature in movimento della storia del cinema.

Il montaggio, ancora limitato e privo di veri raccordi, comincia comunque ad avere quella funzione narrativa che avrà pienamente solo in seguito. Il film è quindi un anticipatore di quanto, poco tempo dopo, sapranno fare gli “inventori” del cinema narrativo classico: Cecil B. De Mille e, soprattutto, David W. Griffith, che sappiamo entrambi spettatori interessati del film di Pastrone. In tema di influenze, basti infine rilevare come la famosa scena del sacrificio al Moloch fu di ispirazione visiva nientemeno che per il Fritz Lang di Metropolis (1926).

Per la decisiva ricaduta sul nascente cinema americano, come già detto, e per l’inaugurazione del kolossal storico e mitologico, appare veramente giustificata l’iscrizione sulla lapide commemorativa sulla casa natale di Asti, che recita “In questa casa (…) è nato Giovanni Pastrone, regista, con lui il cinema diventò arte industria spettacolo”. Si deve a questo italiano d’eccellenza, pioniere dell’arte cinematografica, anche l’intuizione che il cinema potesse diventare spettacolo valido a competere con quello allora di maggior successo in Italia, l’opera lirica in costume; e che potesse attrarre anche il pubblico borghese e aristocratico, che fino ad allora disprezzava il cinematografo bollandolo come spettacolo plebeo. Non si può dire che non abbia colto nel segno.