Dita di mani che per la soggettiva molto ravvicinata fanno solo intuire la visione di un prato in fiore al di là di quella che appare una membrana rosacea. E le parole di una donna, Ada McGrath: «La voce che sentite non è la mia voce. È la voce del mio pensiero. Non parlo da quando avevo sei anni. Nessuno sa il perché, nemmeno io. Mio padre dice che ho un talento oscuro e che il giorno che mi metterò in testa di non respirare sarà l’ultimo. Oggi mi ha data in moglie a un uomo che non conosco. Presto, mia figlia e io, lo raggiungeremo nel suo Paese. […] La cosa strana è che io non penso a me come a una creatura silenziosa. E questo, grazie al mio pianoforte. Ne sentirò la mancanza durante il viaggio». Ecco che la figura femminile che si è fin lì così descritta siede al suo adorato strumento eseguendo un brano (My Big Secret, il primo della colonna sonora firmata da Michael Nyman). A seguire un’inquadratura subacquea del fondo di una scialuppa che fende le acque oceaniche ci trasporta su di una spiaggia, nel mezzo di un ambiente naturale che a prima vista potrebbe far pensare a un film diretto dal Werner Herzog che fu.

Molti avranno invece già riconosciuto – «One visit for every key» – l’incipit di Lezioni di piano (1993), opera che ha conquistato la Palma d’oro a Cannes, tre premi Oscar (migliori attrice protagonista, attrice non protagonista e sceneggiatura originale) e che rappresenta ancora oggi, a distanza di più di venti anni dalla sua uscita, il più grande successo di critica e di pubblico della sua autrice, la regista neozelandese Jane (Elizabeth) Campion, che – nata a Wellington il 30 aprile 1954 – compie oggi 60 anni: «Noi degli antipodi viviamo in una terra di coloni. Siamo donne di frontiera, cresciute forti ed emancipate».

Formatisi entrambi in Inghilterra, il padre Richard è regista d’opera e di teatro mentre la madre Edith (a cui è dedicato Lezioni) è attrice e scrittrice, che purtroppo attraversa periodi di depressione allora curati con l’elettroshock. Con la loro compagnia teatrale attraversano in lungo e in largo la Nuova Zelanda e decidono di stabilirsi nella capitale alla nascita della figlia, che, una volta terminati gli studi liceali, si iscrive alla cittadina Victoria University: «Ho studiato antropologia dopo essermi occupata di psicologia e pedagogia. Quello che mi interessava era poter studiare “ufficialmente” quello di cui ero curiosa: come funzionano i nostri pensieri, il loro contenuto mitico che non ha niente a che fare con la logica, i comportamenti umani. Credo di avere un occhio antropologico, un senso dell’osservazione, e apprezzo nell’antropologia sia la teoria che la poesia. Penso che l’uomo si creda un essere dotato di raziocinio, ma non lo è, essendo governato da tutt’altre cose». Pare già di poter “vedere” il nocciolo di quella che sarà tutta la sua produzione cinematografica ancora a venire.

Nel 1975, dopo la prima laurea, la prima svolta: «[M]i sono resa conto che se avessi proseguito in questa direzione, avrei dovuto a un certo punto esprimermi in modo tale da essere compresa solo da altri antropologi. Io invece volevo comunicare con altre persone e trovare dei simboli comuni, cosa che si può fare solo raccontando delle storie. Mi interessava in effetti il rapporto dell’arte con la vita, come si reagisce dal punto di vista visivo a un’esperienza. Fu allora che decisi di andare in Europa; volevo anche imparare a dipingere». Ha così inizio il suo personale “Grand Tour” che la porta prima in Italia – per studiare arte a Venezia e italiano a Perugia – e poi a Londra, dove «passavo le giornate al cinema da sola. Dovevo nascondere la mia personalità, ero troppo per loro. Beh… tutto era troppo per loro!». Decide così di rientrare in Oceania, trasferendosi in Australia per iscriversi al Sydney College of Arts dove nel 1979 si laurea in Belle Arti.

È tempo della seconda svolta: «Sentivo il bisogno di affrontare gli argomenti che più mi stavano a cuore: ossia le relazioni, l’amore e… il sesso! Frequentavo la scuola d’arte e passavo le giornate a dipingere, ma quando tornavo a casa non vedevo l’ora di parlare di argomenti come le difficoltà nelle relazioni. Poi ho pensato: perché non lavoro proprio su questi temi? Così ho iniziato a dipingere delle vere e proprie storie e ho capito che il mio desiderio era quello di raccontare». Viene quindi ammessa all’Australian Film Television and Radio School, che circa dieci anni prima era stato il centro propulsore della New Wave australiana.

Il suo primo cortometraggio, realizzato nell’ambito della scuola, è del 1982 e si intitola An Exercise in Discipline: Peel, cui seguono, tra il 1983 e il 1984 – anno della sua terza laurea, in Cinema -,Mishaps: Seduction and ConquestPassionless Moments e A Girl’s Own Story, il saggio finale di diploma. Il primo, presentato a Cannes nel 1986 insieme al terzo e al quarto, vince la Palma d’oro della categoria. Nel 1989, sempre sulla Croisette, debutta con il primo lungometraggio, Sweetie: l’opera è accolta da fischi e polemiche ma riceve diversi riconoscimenti internazionali. Un anno più tardi, con Un angelo alla mia tavola, ispirato alla vita della poetessa neozelandese Janet Frame, vince il Leone d’argento a Venezia.

Nel 1993 diventa la prima regista a portare a casa la Palma d’oro con il già citato Lezioni di piano, che ottiene svariati altri premi in tutto il mondo. Tre anni dopo, ecco il sottovalutato adattamento di Ritratto di signora di Henry James («Questo romanzo fa parte della mia educazione sentimentale, sono cresciuta rileggendone continuamente dei brani. […] Potrei perfino dire che ho imparato a fare cinema per poter portare sullo schermo il mondo e i personaggi di James, in particolare Isabel Archer»), che presenta a Venezia ma fuori concorso («Avevo paura di non vincere e per un film così sarebbe stato un danno economico enorme. La stampa ti crea e, se vuole, ti distrugge»).

Con la sorella maggiore Anna lavora poi alla sceneggiatura del controverso Holy Smoke – Fuoco sacro, film che nel 1999 porta ancora al Lido, questa volta in concorso, ma che viene ignorato dalla giuria. Del 2003 è l’ancora più discusso In the Cut, trasposizione dell’omonimo thriller erotico della statunitense Susanna Moore. Il convinto consenso della critica ritorna solo nel 2009 con il sorprendente e struggente Bright Star («Fulgida Stella, come tu lo sei, fermo foss’io»), ricostruzione da lei scritta e diretta di una storia vera (è la prima volta in carriera), quella dell’amore tra John Keats e Fanny Brawne: «Il titolo è quello della poesia che […] scrisse nel 1819, e volevo che anche il film fosse una ballata: procede a strofe, andando sempre più nel profondo…». In effetti nessuna distanza sembra separare le “keys” e le note di Ada dai ricami e dagli abiti di Fanny: «Una cosa bella è una gioia per sempre: / Cresce di grazia; mai passerà / Nel nulla; […]».