Se ci si trovasse a dover indicare l’edizione del Festival International du Film che nel recente passato si è distinta come quella più attenta e generosa di riconoscimenti nei confronti delle opere e degli autori ascrivibili al nuovo corso della New Hollywood che è andato affermandosi tra gli anni Sessanta e Settanta – un cambiamento indice di più generali rivoluzioni nell’ambito dell’industria cinematografica statunitense e non solo -, andrebbe senz’altro selezionata l’edizione n. 27, che si è svolta giusto quarant’anni fa dal 9 al 24 maggio 1974.

In quel momento Francis Ford Coppola (classe 1939) è reduce dapprima dal quasi fallimento della “sua” American Zoetrope, fondata nel 1969 insieme a George Lucas (classe 1944) e successivamente dal sorprendente esito commerciale sia de Il Padrino (1972), da lui scritto – a quattro mani con Mario Puzo – e diretto, che di American Graffiti (1973, George Lucas), da lui prodotto. Decide allora di mettere mano a un suo progetto degli anni Sessanta dal titolo La conversazione (1974), che vede protagonista il premio Oscar – quale migliore attore protagonista per Il braccio violento della legge (1971, William Friedkin) – Gene Hackman (classe 1930).

Prima in patria e successivamente in Europa, il primo, grandissimo successo di critica e di pubblico dell’allora venticinquenne Steven Spielberg (classe 1946) è invece rappresentato dal film Duel, girato e trasmesso nel 1971 sulla rete statunitense ABC all’interno del ciclo “ABC Movie of the Weekend” e uscito nelle sale cinematografiche un anno più tardi con quindici minuti in più rispetto alla versione televisiva, mentre il successivo Sugarland Express (1974) – che offre un ruolo a suo modo intenso e complesso alla quasi coetanea e premio Oscar quale miglior attrice non protagonista per Fiore di cactus (1969, Gene Saks) Goldie Hawn (classe 1945) – è da considerarsi il suo primo, vero lungometraggio per il cinema.

Nel 1974 entrambi i registi – che all’epoca sono (Coppola) o si avviano (Spielberg) a diventare due tra gli esponenti di spicco della Nuova Hollywood – presentano in concorso queste loro ultime pellicole con esiti decisamente lusinghieri: il primo vince la Palma d’oro per il miglior film, mentre il secondo porta a casa quella per la migliore sceneggiatura, firmata da Hal Barwood e Matthew Robbins. Come scrive in proposito la rivista “Sight & Sound”, «[g]li Americani sembrano aver capito la direzione dello sguardo europeo verso il loro cinema, e aver smesso di aver paura di fare arte».

Per la cronaca, si aggiunga a questi due riconoscimenti anche il premio per il migliore attore assegnato a Jack Nicholson per L’ultima corvée (1972, Hal Ashby) – l’odissea on the road di due sottoufficiali della marina militare Usa che, dovendo tradurre in carcere un marinaio disadattato condannato a una lunga pena per un banale furto, fraternizzano con il giovane – e la presentazione di Mean Streets – Domenica in chiesa, lunedì all’inferno (1973) firmato da Martin Scorsese nella sezione “Quinzaine des Réalisateurs”. Ma è meglio andare con ordine.

Scritto – oltre che diretto – da Coppola (sorprende la vicinanza del materiale narrato con le quasi coeve dinamiche legate ai fatti dello scandalo Watergate, che porta alla fine ignominiosa della seconda presidenza Nixon), La conversazione – «un piccolo gioiello di semplicità nella struttura narrativa e per forza drammatica» (Vito Zagarrio) – vede al suo centro la parabola dell’introverso (per non dire paranoico) esperto di sistemi di sorveglianza Harry Caul (termine, quest’ultimo, che in lingua inglese designa la membrana che avvolge il feto), il quale riceve dal segretario del direttore di una grande azienda – che nutre più di un sospetto circa la fedeltà coniugale della propria moglie – il ben remunerato compito di intercettare le conversazioni della donna e del suo amante, tra la gente che affolla Union Square di San Francisco. Ma quando Harry, analizzando e filtrando le registrazioni effettuate, coglie una frase in particolare («Ci ucciderebbe se ne avesse l’occasione» «He’d kill us if he had the chance»), si convince che la coppia da lui spiata stia correndo un grave pericolo e non esita a mandare (pericolosamente) a monte questo suo delicatissimo rapporto di lavoro, decisione che lo precipita verso un finale tanto amaro quanto malinconico.

Sulle orme – come non poche altre pellicole di quegli anni – di Gangster Story (1967, Arthur Penn) e uscito nelle sale insieme a La rabbia giovane (1973, Terrence Malick) e Gang (1974, Robert Altman),Sugarland Express si appoggia su di un fatto di cronaca occorso in Texas nel 1969 e narra la storia – manco a dirlo – on the road di Lou Jean che spinge il marito Clovis Poplin all’evasione da un istituto di detenzione per andare a recuperare insieme il figlioletto di due anni Baby Langston, affidato a una coppia di anziani coniugi di Sugarland. Durante la fuga, i due prendono come ostaggio sulla sua auto di servizio il poliziotto Maxwell Slide, mentre giornali e televisioni suscitano attorno alla loro disperata impresa un enorme clamore. L’inseguimento – dalle caotiche proporzioni – è coordinato dal capitano Tanner, che vigila sulle varie vicende con sguardo paterno e ultimamente comprensivo. Fino al drammatico epilogo.

Il film è stato variamente definito come un lucido e amaro saggio sulla società americana del consumismo e dei meccanismi del potere, senza però riuscire a bissare il grande successo di pubblico dell’opera precedente, anche a motivo dei suoi toni forse troppo cupi e drammatici: come scrive Luca Lardieri, «[s]eguendo ciò che sembra essere il loro destino, tutti i personaggi daranno la “caccia” ad un qualcosa che in realtà è inafferrabile, lasciando in ognuno di loro un profondo senso di vuoto, malinconia e impotenza. Se Duel rappresentava le paure del subconscio all’inseguimento della stabilità emotiva, Sugarland Express ritrae la mutevole natura dell’uomo alla costante rincorsa di qualcosa di effimero, che in questo caso, però, dovrà inevitabilmente scontrarsi con la crudeltà della realtà».

Sembrano anni luce quelli che lo dividono dal film successivo: eppure in quello stesso maggio 1974 Spielberg è già alle prese con la lavorazione di un progetto che rappresenterà una svolta decisiva sia per la sua carriera che per l’industria cinematografica: Lo squalo (1975).