Sette anni dividono le uscite delle sue due ultime pellicole, mentre da allora di anni se ne devono già contare ormai altri quattro senza un’opera da lui diretta, scritta o prodotta. Spiace trovarsi a celebrare il traguardo dei 70 anni di un grande cineasta iniziando da una “assenza”, dal ricordare il (troppo) lungo intervallo in cui non si è avuta la fortuna di potersi lanciare nel confronto con le sue più recenti “visioni”, alla scoperta di sguardi nuovi, “altri” sulle cose proprie e del mondo.

Un sentimento di mancanza che – con il recentissimo, improvviso congedo dalla vita del “suo” John Keating («Seize the day, boys. Make your lives extraordinary») – si acuisce all’idea che il regista e sceneggiatore che oggi si festeggia è l’australiano Peter (Lindsay) Weir, nato il 21 agosto 1944 a Sydney ed emerso, dopo un apprendistato prima televisivo e poi da documentarista, con la cosiddetta New Wave del cinema australiano: «Sono stato fortunato a cominciare a fare film negli anni Settanta, un periodo molto stimolante per questo Paese. È stata un’epoca di pietre miliari – “il primo film australiano a essere stato un successo al box-office locale”; “il primo a essere accettato in concorso al festival di Cannes”; “il primo a ottenere una distribuzione americana” e così via. Ci conoscevamo tutti: Bruce Beresford, George Miller, Fred Schepisi, Gillian Armstrong».

La sua carriera cinematografica ha inizio con Le macchine che distrussero Parigi (The Cars that Ate Paris, 1974), black-comedy presentata al Festival di Cannes richiamando – ma solo in Francia – numerosi spettatori, mentre il (primo) successo internazionale arriva con Picnic a Hanging Rock (Picnic at Hanging Rock, 1975), a oggi ancora il più rarefatto, ipnotico e inquietante giorno di San Valentino mai portato al cinema, sulle note di Bruce Smeaton e Gheorghe Zamphir (al flauto di Pan) e con sognanti brani da Mozart e Beethoven, «un’autentica miniera di simboli e metafore, quasi tutte riferite all’antinomia fondamentale natura/civiltà, che in questo film celebra uno dei suoi maggiori trionfi» (Alberto Morsiani). Seguono L’ultima onda (The Last Wave, 1977), con Richard Chamberlain nei panni di un avvocato tormentato da incubi spaventosi sulla fine del mondo e incaricato della difesa di un gruppo di aborigeni accusati di omicidio, e il televisivo L’idraulico (The Plumber, 1980), conosciuto anche come L’uomo di stagno, tratto da un racconto dello stesso Weir e realizzato in 16 mm.

Un anno più tardi è la volta dell’allora «più costoso film australiano mai realizzato» (tra i produttori figura Rupert Murdoch, il cui padre era stato un inviato di guerra), Gli anni spezzati (Gallipoli, 1981), lo struggente racconto della carneficina della Grande Guerra vista attraverso gli occhi di due giovanissimi podisti australiani (interpretati da Mark Lee e Mel Gibson) inquadrati nell’Anzac (Australia New Zealand Army Corps), che sancisce il definitivo ingresso del regista nel mercato internazionale, sulle note (elettroniche) di Maurice Jarre ma soprattutto dell’Adagio di Albinoni (chi l’ha sentito per la prima volta grazie a questo film, difficilmente scorderà l’uno e l’altro). Mel Gibson (insieme a Sigourney Weaver e al premio Oscar Linda Hunt) è anche tra i protagonisti di Un anno vissuto pericolosamente (The Year of Living Dangerously, 1982), storia di giornalismo e passione che si svolge in una inquieta Giacarta alla vigilia della caduta di Sukarno e una delle più belle pellicole degli anni Ottanta.

I successivi Witness – Il testimone (Witness, 1985) e Mosquito Coast (The Mosquito Coast, 1986) sono invece il frutto della collaborazione con la star di Hollywood Harrison Ford: il primo – una novità nella carriera di Weir – è prodotto completamente con capitale statunitense e da una delle grandimajors (la Paramount), mentre il secondo è il suo titolo più herzoghiano, che non incontra però i favori di parte della critica e del grande pubblico, che dimostra di non gradire quello che è il primo ruolo da “cattivo” dell’interprete di Han Solo e Indiana Jones, vale a dire due delle icone cinematografiche degli anni Settanta e Ottanta.

Successo che il regista torna comunque a raccogliere grazie al celebre L’attimo fuggente (Dead Poets’ Society, 1989) con il rimpianto Robin Williams che fischietta al suo primo ingresso in aula l’Ouverture “anno 1812” di Tschaïkovski, seguito da Green Card – Matrimonio di convenienza (Green Card, 1990), sulle unioni di facciata di cittadini stranieri negli Usa, con Gérard Depardieu e Andie MacDowell e scritto su misura da Weir per l’attore francese dopo averlo ammirato in Danton (1982, Andrzej Wajda), mentre Fearless – Senza paura (Fearless, 1993), interpretato da Jeff Bridges e Isabella Rossellini, cerca invece di esplorare i temi del caso, del lutto, dello smarrimento, dell’elaborazione del dolore e della rinascita spirituale: «Non mi piace troppo che si evidenzi il tono mistico dei miei film, ma, lo devo ammettere, le domande sul senso finale della vita mi attirano».

Ma la sua pellicola forse più famosa è The Truman Show (id., 1998): in una località balneare da sogno (in realtà un gigantesco studio televisivo) va in scena da trent’anni, a sua insaputa, la vita di Truman Burbank (Jim Carrey), protagonista (e unica figura genuina) di una sorta di documentario/soap opera in perenne diretta mondiale. Il ricordo di due occhi che per la prima volta lo hanno guardato con sincerità e una serie di imprevisti daranno il via a un cammino per lui del tutto nuovo… La parabola di un true man per una lucida rappresentazione della dittatura del desiderio che ogni sistema di potere porta con sé.

Cinque anni più tardi ecco l’altrettanto eccezionale Master & Commander – Sfida ai confini del mare(Master & Commander: the Far Side of the World, 2003), straordinaria avventura di epoca napoleonica su “maestri” e “comandanti” interpretata da un magnetico Russell Crowe che spinge molti nel pubblico, anche tra i più giovani, a (ri)sobbalzare in platea con il whitmaniano «O Captain! my Captain!» mentre The Way Back (id., 2010) è un inno al coraggio e alla libertà umani attraverso il racconto della tanto incredibile quanto reale impresa di sette uomini e una donna che nella Siberia del 1940 sfidarono l’ostilità della natura circostante – elemento distintivo del suo cinema – per fuggire da un gulag sovietico.

Una (possibile) sintesi di questo suo percorso secondo lo stesso Weir? «Non mi avvicino mai a una storia […] per “educare” o per lanciare un messaggio come faceva il parroco nella chiesa, o un insegnante nella scuola. Preferisco che le cose siano ambigue, irrisolte, misteriose, non didattiche. […] Nel lontano passato penso che sarei stato un trovatore di qualche tipo. Un cantastorie che viaggia di corte in corte, cantando per avere una minestra, e che poi si rimette in cammino».