Nella giornata conclusiva della 71esima edizione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, che difficilmente vedrà premiato il nostro cinema per carenza – ormai cronica – di pellicole valide in concorso, ricordiamo un Leone d’Oro che cinquant’anni fa gratificò il cinema italiano, quello assegnato a Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni nel 1964. Fu uno dei sei primi premi giunti ad autori italiani negli otto anni che intercorsero tra il Leone d’Oro a La Grande Guerra di Monicelli (1959) e quello assegnato a La Battaglia di Algeri (Pontecorvo) nel 1966; anni che non a caso si collocano all’apice del periodo più prolifico che il nostro cinema abbia conosciuto. Dopo di che il vuoto o quasi, almeno per quanto riguarda il Leone veneziano, visto le tre sole vittorie nelle successive trentasei edizioni competitive, ricordando anche che la Mostra – nel decennio 1969/79 – in alcuni casi non venne organizzata mentre in altri non vennero assegnati premi. Ma il cinema non è uno sport, le competizioni ed i concorsi tra opere d’arte – autentiche o supposte tali – sempre producono graduatorie che non vanno prese come oro colato, considerato anche che la distribuzione dei premi è spesso influenzata da criteri geopolitici o di mercato. Comunque sia, le risultanze statistiche sopra menzionate, comprendendo un periodo di tempo piuttosto lungo, confermano una tendenze di fondo basata su fatti ormai accertati, evidenti anche da altri punti di osservazione. Questi cioè, unitamente ad altri di altre fonti, sono dati che testimoniano una volta di più il regresso in termini di stile, di contenuti tematici, di capacità autoriale, di coraggio produttivo e di qualità media degli attori – fatte salve eccezioni notevoli – che il nostro movimento ha conosciuto nell’ultimo trentennio, almeno. Se poi si tiene conto che il film di Antonioni, se pur visivamente straordinario, non va certo annoverato tra i capolavori assoluti che la settima arte ci ha regalato, ne tra le migliori opere del suo autore come del periodo in questione, la faccenda pare ancor più emblematica.
Deserto Rosso muove dalla “malattia dei sentimenti” cui è afflitto il compatto universo dei personaggi antonioniani, questa volta inseriti, però, in un ambiente sociale e materiale che assume su di essi un peso oggettivo e storicamente discriminante. Dopo la cosiddetta trilogia della solitudine, composta dai film l’Avventura (1959), La Notte (1960) e l’Eclissi (1962), tre opere che paiono come un corpo tematico unitario allineato lungo un discorso, anche stilistico, continuo e compiuto, Antonioni trae con Deserto Rosso una sintesi radicale e pessimistica di questo suo mondo poetico. Ambientato in una Ravenna livida ed impersonale, il film racconta di Giuliana (Monica Vitti), moglie borghese di un dirigente d’industria, insoddisfatta della propria vita sociale ed affettiva, che si sente fortemente aliena rispetto al mondo moderno in rapida trasformazione che la circonda. Depressa e reduce da un tentativo di suicidio, nemmeno la relazione avventurosa con Corrado (Richard Harris), collega del marito, riesce a ridestare in lei la voglia di riprendersi l’esistenza. Gli unici momenti sereni con l’amante si rivelano illusori, come il sogno di fuggire su una spiaggia deserta, che si dimostra un inadeguato sbocco alla propria depressione. Alla fine Giuliana pare rassegnarsi al nulla esistenziale che la società le impone, incastrata in un contesto in rapida e disumana industrializzazione, da cui metaforicamente si allontana in compagnia del figlio al termine del racconto.
Se i principali topics del film provengono, per così dire, dal tessuto “genetico” costitutivo del cinema antonioniano, tutta nuova è la ricerca stilistica sulle possibilità espressive del colore. Infatti Deserto Rosso è il primo film di Antonioni a colori, scelta che lui stesso definì non necessaria, in quanto conseguenza naturale del soggetto e della sua ambientazione. Comunque, una volta alle prese con il nuovo mezzo, l’ha voluto meticolosamente usare in termini fortemente espressivi, per connotare cromaticamente lo stato emotivo dei personaggi, soprattutto della donna in crisi impersonata dalla Vitti. “Voglio dipingere i film come un pittore la tela; voglio inventare i rapporti tra i colori e non limitarmi a fotografare quelli naturali”, così si esprimeva lo stesso Antonioni a proposito del ricercato gusto cromatico del film, tanto radicale ed innovativo da risultare istruttivo ancora oggi. E non è un caso che negli stessi anni anche autori come Bergman e Fellini fossero impegnati a sviluppare un medesimo tipo di approccio al colore cinematografico.
Questo primo film policromo di Antonioni, come accennato, pare però ad occhi odierni un po’ datato, eccessivamente lento nel ritmo e ridondante nell’apparato tematico, qui – diversamente che altrove – assiso con dialoghi che scadono troppo sovente nel didascalico. Rimane peraltro intatto l’intento autenticamente artistico dell’autore, la sua capacità di pensare e fare cinema in modo sincero e autorevole, volto solo al cinema per il cinema, con le sue regole compositive e le scelte di stile atte a trasferire in testo filmico emozioni profonde, sentimenti umani, idee sulla società, sulla Natura e sulla Storia. Michelangelo Antonioni, come si lasciò sfuggire al microfono del celebre Lello Bersani in occasione di una delle tante premiazioni (non ricordo quale), se n’é sempre sbattuto del mercato e dei gusti presunti del pubblico; ne più ne meno di quanto hanno fatto tutti gli autentici artisti del cinema di ogni epoca (troppo riduttivo elencarne solo alcuni). In tale senso la tensione intellettuale e creativa che conduce a film come Deserto Rosso, pur con tutti i difetti evidenziati, deve considerarsi cosa preziosa, che con il tempo si è persa un po’ ovunque, in particolare in Italia, sostituita dal marketing, dal target, dall’audience e da altri dei dell’Olimpo mediatico del nuovo millennio. Aspettiamo allora con impazienza il ritorno di un monoteismo videocratico, un nuovo profeta risorto che rammenti a tutti l’evidenza di un antico verbo: che il Testo sia il tuo unico dio, o uomo di lettere e di cinema, e tutti gli altri strumenti rimangano solamente suoi devoti discepoli.