In principio fu… Edwin Stanton Porter, con il suo L’assalto al treno (The Great Train Robbery, 1903), ormai canonicamente considerato il primo film della storia del cinema da potersi ascrivere al cosiddetto genere western, ovvero le cinéma américain par excellence, “il cinema americano per eccellenza”, per riprendere il titolo di un famoso testo firmato a quattro mani da André Bazin (cofondatore nel 1951 dei “Cahiers du cinéma”) e Jean-Louis Rieupeyrout (scrittore francese specializzato per quanto riguarda l’Ovest statunitense) e uscito nel 1953, quando ancora la critica mainstream si ostinava a considerare questo filone poco più di un puro divertimento.
Nel frattempo, nell’arco di quei cinquant’anni, al capostipite Porter erano succeduti registi del calibro di John Ford, Raoul Walsh, Cecil B. De Mille, Henry King, Michael Curtiz, William A. Wellman, King Vidor, Howard Hawks, Delmer Daves, Anthony Mann, Fred Zinnemann, Fritz Lang e George Stevens. Senza dimenticare che, successivamente, sarebbero apparsi anche i lavori di Allan Dwan, Nicholas Ray, Otto Preminger, Henry Hathaway, Robert Aldrich, Samuel Fuller, Budd Boetticher, Arthur Penn, John Sturges e John Huston, per arrivare – volendo restare al di qua di quello spartiacque rappresentato dai fermenti contestatari che avrebbero portato al Sessantotto – alle pellicole di Sam Peckinpah, l’iniziatore del dirty western, e di Sergio Leone, per il quale si parlò invece di “western all’italiana” o “spaghetti western”.
È proprio in quest’ultimissimo scampolo di tempo e di autori che vanno cercati i semi di quel cambiamento che avrebbe finito per informare di sé – anche (ma non solo) dal punto di vista ideologico – le pellicole degli anni Settanta (per intenderci: il decennio dell’esordio di Clint Eastwood dietro la macchina da presa), chiuso simbolicamente prima dalla morte del maggiore interprete del genere, Marion Mitchell Morrison, in arte John Wayne (1979), e poi dall’uscita dell’ormai proverbialmente fallimentare I cancelli del cielo (Heaven’s Gate, 1980), scritto e diretto da Michael Cimino.
Dopo un insuccesso critico e commerciale di così clamorose proporzioni, da dove e come si poteva ripartire, essendo mutati, oltre al mondo circostante, anche i gusti degli spettatori in sala? Da tentativi isolati che – strizzando benevolmente l’occhio al pubblico – guardavano con un misto di disincanto e divertimento al tempo (e all’epopea) che fu. Ne è un esempio Silverado (1985), scritto e diretto da Lawrence Kasdan, all’epoca noto più come sceneggiatore per George Lucas – L’Impero colpisce ancora (The Empire Strikes Back, 1980) e Il ritorno dello Jedi (Return of the Jedi, 1983) – e per Steven Spielberg – I predatori dell’arca perduta (Raiders of the Lost Ark, 1981) – che come regista di Brivido caldo (Body Heat, 1981) e Il grande freddo (The Big Chill, 1983).
Sta di fatto che proprio tra gli attori coinvolti in questo western giunto ormai fuori tempo massimo, figurava anche un giovane trentenne californiano, Kevin (Michael) Costner (1955), che avrebbe avuto parecchia parte – nel bene e nel male – nella rivitalizzazione di questo genere cinematografico dato ormai per estinto. Difatti, un quarto di secolo fa, in quell’autunno 1990 funestato dai venti di guerra che spiravano (soffiati anche dai giornali e dalle televisioni) dal Golfo Persico, attraversando quel Medio Oriente che avremmo poi imparato (?) a (ri)conoscere da lì in avanti, tra i mesi di ottobre e novembre, usciva nelle sale statunitensi Balla coi lupi (Dances with Wolves), da lui co-prodotto, diretto e interpretato.
Il film rappresenta prodigiosamente una più che felice (e premiatissima) sintesi tra il respiro epico proprio del western “classico” e lo spirito liberal che era andato affermandosi nel frattempo, soprattutto nel considerare la cultura dei nativi americani e i soprusi e le brutalità ai quali erano andati incontro con la scomparsa della “frontiera”. Una di quelle opere il cui contenuto faceva correre l’obbligo di visione in ambito addirittura scolastico, un fenomeno che si sarebbe ripetuto tre anni più tardi con l’altrettanto sorprendente e meritorio Schindler’s List (1993, Steven Spielberg).
Quello che Costner riuscì a mettere su pellicola era uno sguardo che interpretava le vicende narrate – il primo incontro e il successivo approfondirsi di un rapporto di amicizia, stima e affetto (reciproci) tra il tenente nordista John J. Dunbar, “uscito” da eroe (suo malgrado) dalla guerra di secessione americana che insanguinava l’Est del Paese, e i membri di una tribù di Sioux – mescolando un fervido tono elegiaco a un insospettabile gusto del dettaglio, anche psicologico: «Qui sembra che ogni giorno finisca con un miracolo. E qualsiasi cosa sia Dio, ringrazio Dio per questo giorno. […] Non avevo mai conosciuto un popolo così pronto a ridere, così devoto alla famiglia, così impegnato ad aiutarsi. E l’unica parola che mi veniva in mente era “armonia”. Molte volte mi sono sentito solo, ma fino a questo pomeriggio non mi ero mai sentito così desolato».
Due anni dopo ci pensò il già citato Clint Eastwood a mettere una (nuova) parola definitiva sul West cinematografico con Gli spietati (Unforgiven, 1992), da lui diretto e interpretato. Eppure Balla coi lupi, anche rivisto a venticinque anni di distanza, trasmette ancora oggi una irripetibile sensazione di grazia espressiva (per alcuni sconfinante con ilnaïf) che non si sarebbe più rivista (decisamente ampliata e approfondita) sul grande schermo fino all’estrema apertura lirica del rientrante Terrence Malick con La sottile linea rossa (The Thin Red Line, 1998) e, soprattutto, conThe New World – Il nuovo mondo (The New World, 2005). Non a caso, un’altra (eccezionale) vicenda di incontro/scontro tra due culture diverse, posta quale germe iniziale della storia statunitense.