Münchausen: «Vattene via! Sto cercando di morire!» / Sally: «Perché?» / Münchausen: «Perché sono stanco del mondo. E il mondo, evidentemente, è stanco di me». / Sally: «Perché? Perché!?» / Münchausen: «Perché! Perché! Perché! Perché tutto è logica e ragione oggigiorno, scienza, progresso… Ah! Ah! Leggi dell’idraulica, leggi della dinamica sociale, leggi di questo, leggi di quell’altro… Non c’è posto per i ciclopi a tre gambe dei Mari del Sud, non c’è posto per alberi di cetrioli e oceani di vino… Non c’è posto per me!»

Tra non molto il cinematografo sarà vecchio (quasi) quanto il rugoso Jack Crabb che dà il via ai (dolorosi) racconti della scomparsa del West messi su pellicola da Arthur Penn in Piccolo grande uomo (Little Big Man, 1970): «Centoundici anni fa, quando io ne avevo dieci, la mia famiglia attraversò le Grandi Pianure…», ricorda infatti il protagonista al suo intervistatore all’inizio del film. Certo, questa potrebbe essere l’occasione per (ri)vedere alcune tra le più esemplari sequenze dei fratelli Auguste e Louis Lumière o di Georges Méliès, magari con tanto di film-tributo prodotti in anni decisamente più recenti, come Hugo Cabret (Hugo, 2011, Martin Scorsese). Personalmente, vogliamo pensare a questa ricorrenza festeggiando una figura che quella gloriosa storia – fatta (anche) di manualità, estro, talento (non solo narrativo) – pare averla direttamente incarnata lungo tutto l’arco della propria carriera di cartoonist, animatore, scenografo, attore, sceneggiatore, regista e produttore cinematografico. 

Anche perché non capita a tutti di celebrare il proprio compleanno da morto, un’occasione del tutto particolare che assume un sapore decisamente unico se il traguardo che si taglia è quello delle 75 primavere – di cui 60 trascorse nel movimentato XX secolo – e se il nome iscritto all’anagrafe è Terence (Terry) Vance Gilliam, nato il 22 novembre 1940 a Medicine Lake, nei pressi di Minneapolis, nello stato del Minnesota. Era, infatti, l’8 settembre scorso quando “Variety” – la “Bibbia” mondiale del mondo dello spettacolo – aveva pubblicato on line la notizia della morte dell’artista di origine statunitense (ormai cittadino inglese), lasciando visibile per ore il pezzo che ne annunciava la scomparsa, firmato da Dave McNary.

La (geniale, manco a dirlo) reazione dell’ex membro dei Monty Python si è rivelata all’altezza del suo autore: Gilliam, sulla sua pagina Facebook, si è scusato per essere morto, in particolare con quelli che avevano già comprato i biglietti per i suoi incontri a venire, invitando i lettori a non credere alla smentita e alle scuse di “Variety” e accompagnando il tutto con un fotomontaggio che lo mostrava col volto afflitto sul letto di morte e pianto da una vecchietta a mani giunte lì accanto che reggeva un cartello con la scritta «Aveva solo 30 anni! Sono state le cattive recensioni di “Variety” a farlo invecchiare». 

Commento e contorno di pubblicità assolutamente eccezionali e nel momento certo più propizio per il cineasta, che, in quei giorni, aveva annunciato la prossima pubblicazione della sua autobiografia pre-postuma (proprio così!) dal titolo “Gilliamesque”, uscita questa settimana anche in traduzione italiana nelle edizioni SUR. Senza contare che si sta attualmente preparando – ancora una volta (a chi le ha contate, questa pare la settima…) – a iniziare le riprese di The Man Who Killed Don Quixote, sua personalissima rivisitazione del “Don Chisciotte della Mancia” di Miguel de Cervantes y Saavedra, sembra a partire dall’aprile 2016 (come dichiarato dallo stesso Gilliam in un’intervista pubblicata da “The New York Times Magazine” a inizio mese). 

Ma vista l’attuale circostanza, più che al progetto di (quasi) tutta una vita dedicato al «Caballero de la Triste Figura», ci piace tornare a una pellicola degli anni Ottanta piena di diversi spunti in questo stesso senso, che sono poi tornati di recente nella sua penultima fatica, Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo (The Imaginarium of Doctor Parnassus, 2009). 

Il riferimento è ovviamente a Le avventure del barone di Münchausen (The Adventures of Baron Münchausen, 1988), un’opera assai significativa nella sua carriera, preziosa anche per poter vedere materializzata sul grande schermo e sentire, comprendere tutta la concretezza di quello che è il lavoro del fare cinema: da un lato la sua imprescindibile componente di artigianalità (il padre di Gilliam era carpentiere e Terry stesso ha iniziato la propria carriera come vignettista satirico dopo studi universitari che lo avevano visto dedicarsi prima a Fisica, poi ad Arte e infine a Scienze politiche) e dall’altro, in quanto industria, l’ovvia necessità di far tornare i conti. 

Connesse a questo aspetto – e il film ne è un clamoroso esempio -, ecco allora il (possibile) contorno fatto di traversie lavorative (in questo caso purtroppo sfortunatamente verificatesi) di un’attività finalizzata alla commercializzazione di un prodotto concepito essenzialmente come di intrattenimento e che – ciò nonostante (o in quanto tale?) – assomma in sé gran parte di tutte le altre arti. 

Il salto concettuale è brevissimo da qui a Lost in La Mancha (2002, Keith Fulton e Louis Pepe), documentario sulla lavorazione della già citata pellicola mai portata a termine sul Don Chisciotte, anche questa assolutamente contigua ai temi emersi ed espressi (in maniera compiuta) in Münchausen. Un dietro le quinte utilissimo per poter assistere e comprendere la natura dell’intensa attività nascosta nelle immagini in movimento che comodamente ci gustiamo dalle poltrone in sala o dal divano di casa e che, in questo caso, nemmeno hanno visto la luce del proiettore, un imperdibile saggio della quotidiana lotta che comporta la produzione di un lungometraggio cinematografico. 

«E tutto per che cosa?», ci si potrebbe domandare. La risposta ce la ricorda Dario Minutolo, in chiusura della relativa voce del “Dizionario dei registi del cinema mondiale” (Einaudi, Torino 2005, vol. II, p. 47), quando afferma che, «[r]egista di ottima tecnica, abile nel trarre da ogni attore, professionista o meno, la prestazione più idonea, dotato di spiccata visionarietà, Gilliam è un narratore dal taglio epico e ritmo episodico, alla maniera della chanson de gestee del romanzo cavalleresco, su cui si innesta la satira sferzante e la costruzione di piani spazio-temporali che si intersecano. Oggetto di questi racconti epici, difesa e rilancio dell’atto del narrare, dell’immaginazione e della fantasia come strumenti indispensabili, anche se non unici, a un’adeguata comprensione del mondo. In essi risiedono anche le ragioni per una scelta etica, e questo fa delle sue storie fantastiche anche dei modernissimi racconti morali». Terry lives

 

Münchausen: «E da quel momento in poi tutti coloro che ne avevano la capacità e il talento vissero felici e contenti!».