L’ultimo scintillante, virtuosistico, shakespeariano gangster movie in salsa italoamericana di Martin Scorsese (1942) e il corale, grandioso, magistrale poliziesco per eccellenza degli anni Novanta di Michael Mann (1943). Di cui basterebbe anche la sola prova dell’attore che ha interpretato entrambe le pellicole (Robert De Niro) per farne due tra le opere più memorabili di quel decennio, senza timore di smentite. Eppure, quasi una sorta di ideale passaggio del testimone tra coetanei, anche se di provenienza diversa e affermatisi in tempi differenti: uno dei gloriosi, inossidabili movie brats provenienti dalla costa orientale – insieme a Brian De Palma – il primo, inizialmente votato al piccolo schermo a cavallo degli anni Settanta e Ottanta dopo una formazione in Europa il secondo.

A poche settimane di distanza l’uno dall’altro, vent’anni fa, tra i mesi di novembre e dicembre 1995, esordivano nelle sale cinematografiche statunitensi sia lo scorsesiano Casinò (Casino, 14-16-22 novembre) che il manniano Heat – La sfida (Heat, 15 dicembre), il primo (178 minuti) firmato da qualcuno che stava per entrare in una nuova fase della propria carriera (con la parte migliore alle spalle, sia concesso affermarlo grazie alla prospettiva che consentono il tempo e le opere nel frattempo trascorsi), mentre il secondo (170 minuti) scritto e diretto da chi si avviava in quegli stessi anni a confermarsi l’ultimo moderno “classico” del Nuovo Cinema Americano, con ancora parecchio da dire e da mostrare del suo immaginario morale e visivo.

E come detto, lì nel mezzo, un volto incastonato come una pietra preziosa, divenuto quasi una vera e propria rappresentazione iconica del genere e del mestiere, in gran parte grazie alle otto pellicole interpretate per Scorsese, ai cui losers ha dato quasi tutto il meglio della propria carriera di attore. E perdente lo è stato anche nel neoromantico e vigilato duello tra guardie e ladri scatenato nelle strade di Los Angeles dagli uomini del detective Vincent Hanna (Al Pacino) e da quelli del rapinatore professionista Neil McCauley (De Niro), senza una singola scena girata in teatro di posa ma tutte in locations cittadine, all’insegna dello “sperimentale” e avvincente realismo manniano, una sorta di marchio di fabbrica che fa di ogni suo nuovo titolo un oggetto di culto per moltissimi appassionati.

Gavin Smith (attuale direttore di “Film Comment”) ha definito un suo film come «una combinazione della sensibilità artistica di Antonioni, della struttura meticolosa di Kubrick e del metodo di ricostruzione della realtà di Herzog applicato a soggetti di Sam Fuller». Ne è un esempio anche quest’opera, approdata in sala dopo una “gestazione” pluridecennale: la sceneggiatura originale proveniva infatti direttamente dalla fine degli anni Settanta, quando a nessuno saltava in mente di produrgliela, infine ridotta e realizzata dallo stesso Mann per la televisione con il titolo L.A. Takedown (1989, passato in Italia come Sei solo, agente Vincent). Solo il successo de L’ultimo dei Mohicani (The Last of the Mohicans, 1992) gli ha infine permesso quella libertà di movimento (cinque mesi di riprese!) da cui è nato il film che è riuscito a mettere nella stessa inquadratura due animali da set come Pacino e De Niro.

Come ha scritto Alessandro Canadè alla voce dedicata al produttore, sceneggiatore e regista sul “Dizionario dei registi del cinema mondiale” (Einaudi, Torino 2005, vol. II, p. 505), «[i]l suo è un cinema che innesta le attese, i tempi morti, i rallentamenti della cinematografia europea all’interno dell’entertainment hollywoodiano. In Heat, alle nervose scene d’azione, il regista contrappone la lentezza di quelle private: storie di ordinaria quotidianità, di conflitti familiari, di amori impossibili. […] Questo prolungamento della visione, questo “restare nella scena”, la cura maniacale per i dettagli, per la poetica del gesto (la stretta di mano tra guardia e ladro nel finale di Heat), insieme all’utilizzo del ralenti in funzione di frammentazione dell’azione e del reale […] sono alcuni dei tratti distintivi del suo stile, sempre, immediatamente, riconoscibile. […] In ogni film è però sempre l’uomo il centro gravitazionale attorno a cui ruota il suo universo cinematografico. […] “Se esiste una ragione per cui valga la pena di fare il regista – afferma Mann – è quando posizioni la macchina da presa davanti agli attori, e senti la loro stessa vita passare attraverso la lente”».

Anche volendo restringere il campo per questa verifica alla sola pellicola in questione, risulta certamente chiaro come si stia parlando di un cinema decisamente più “tridimensionale” del 3D vero e proprio, che chiede allo spettatore – anche se potrebbe apparire un paradosso – di essere “vissuto” prima ancora che “visto”, non solo per il fatto che «[è] molto più affascinate ciò che accade nella vita quotidiana rispetto a ciò che si può inventare in una stanzetta di Hollywood». Si può dunque definire quello di Michael Mann un vitalissimo, indispensabile promemoria su grande schermo di chi siamo e possiamo (o sappiamo?) essere.